Senza le Alpi e gli Appennini, non ci sarebbe stata la Resistenza. I ribelli della montagna dettero un contributo importante alla sconfitta del nazifascismo. Ma a settanta anni dalla Liberazione, quanto è ancora sentita, al di là della retorica delle celebrazioni ufficiali, la data del 25 aprile? Navigando in rete abbiamo trovato una riflessione sul tema, comparsa sul blog di Battista Gardoncini, nipote di un comandante garibaldino fucilato nell’ottobre del 1944 e insignito della medaglia d’oro al valor militare. Eccola.
Sono passati settanta anni. I vecchi partigiani di oggi sono i giovanissimi di allora, quasi tutti militari sbandati che salirono in montagna in odio all’ex alleato tedesco, o renitenti alla leva che non volevano entrare nelle milizie di Salò. E hanno una cosa in comune: ricordano la Resistenza come un periodo straordinario, che li ha plasmati e ha forgiato le loro coscienze. Non sottovalutano la fame, le privazioni, il tanto sangue versato. Ma conservano nella memoria soprattutto i momenti belli vissuti a fianco dei compagni, le prove di coraggio in combattimento, le lezioni degli anziani militanti antifascisti che li guidavano e seppero dare un senso politico alla loro ribellione. Hanno l’orgoglio di aver combattuto per qualcosa che andava oltre i destini e le aspirazioni dei singoli, e la serena consapevolezza di averlo fatto dalla parte giusta. Come scrisse uno dei loro comandanti in una lettera alla moglie “in questi mesi in montagna, in mezzo a tante battaglie e a tanti problemi da risolvere, mi sono certamente modificato, perché sono diventato severo con me stesso, e sento una responsabilità nuova, che mi indica in maniera chiara il mio lavoro futuro. Voglio fare qualcosa di buono nel mondo, ne ho ancora il tempo e qualche capacità”. Quel comandante era mio nonno, Battista Gardoncini, che sarebbe stato catturato in Val di Lanzo e fucilato il 12 di ottobre del 1944 a Torino.
Accettare la lezione della Resistenza significa riconoscere che quel desiderio di fare qualcosa di buono per cambiare il mondo apparteneva a una parte sola. Possiamo capire, ma non giustificare, le ragioni di quelli che hanno combattuto dall’altra parte. Possiamo ripensare alla guerra partigiana con il distacco dello storico, e dire che coinvolse un ristretto numero di persone e soltanto metà del paese, perché il Sud era già stato liberato dagli Alleati. Possiamo riconoscere che in quei giorni duri non ci furono soltanto eroismi e sacrifici, ma anche contrasti, opportunismi e qualche episodio a dir poco controverso. Possiamo essere più o meno critici sul corso preso dalle cose quando l’Italia liberata cercò faticosamente la sua strada in un mondo diviso in blocchi, e molte delle speranze suscitate dalla nascita della repubblica e dalla stesura di una Costituzione condivisa subirono una battuta d’arresto. Ma non dovremmo mai dimenticare che furono i partigiani, e non altri, a restituire all’Italia l’onore perduto in venti anni di regime fascista, a riscattare la vergogna delle leggi razziali e dell’entrata in guerra a fianco della Germania nazista e dell’imperialismo giapponese.
Siamo un paese dalla memoria corta, che preferisce mentire a se stesso piuttosto che affrontare il peso dei suoi errori. Nel nostro comune sentire i tedeschi sono sempre e soltanto gli “invasori”. Pochi ricordano che per due anni siamo stati al loro fianco in tutte le imprese più sciagurate, e che dopo l’armistizio dell’otto settembre del 1943 – in realtà una resa senza condizioni agli Alleati – furono sufficienti i pochi reparti tedeschi presenti in Italia per occupare un paese stremato, i cui vertici civili e militari preferirono darsi alla fuga anziché reagire. Ma ci sono tanti altri esempi. Abbiamo costruito il mito degli “Italiani brava gente” mentre in Africa ricorrevamo ai gas e alla fucilazioni di massa. Onoriamo i nostri morti nelle foibe del Carso, e ignoriamo gli oltre centomila deportati voluti dal fascismo nei territori jugoslavi occupati, e i crimini di guerra che abbiamo commesso.
Anche la memoria della Resistenza, a suo modo, è selettiva, quasi a volerne esorcizzare i momenti più aspri e le contrapposizione ideologiche. Lo si vede nelle piccole cose, come la singolare correzione apportata al testo di una delle più belle canzoni partigiane, “Fischia il vento”. L’autore, Felice Cascione, era un medico comunista ligure caduto in combattimento nel gennaio del 1944. Scrisse che i suoi partigiani andavano con le scarpe rotte a conquistare la “rossa” primavera e il sol dell’avvenire, e certo non avrebbe gradito la sostituzione troppe volte sentita di quel “rossa” con il più neutro “bella”.
Ma ci sono anche questioni di maggior peso. Molti hanno contestato la definizione di guerra civile che ha dato della guerra partigiana lo storico Claudio Pavone, certo non sospetto di spirito revisionista. Eppure per capire che fu davvero guerra civile basterebbe salire al monumento che sorge al Colle del Lys, sul crinale tra la valli piemontesi di Susa e di Viù, e scorrere i nomi delle 2024 vittime di due anni di combattimenti e di rappresaglie nella zona. Un numero enorme per una piccola area di montagna, dove tutti si conoscevano o avevano legami di parentela. Un numero molto vicino a quello dei soldati americani morti a Omaha Beach durante lo sbarco in Normandia, che tutto il mondo ha celebrato l’anno scorso per aver riportato la libertà in Europa. Anche i caduti del Lys hanno versato il loro sangue per la libertà. Il 25 aprile ci ricorda il loro sacrificio, insieme a quello di tanti altri uomini e donne. Ma la smemorata repubblica che hanno contribuito a far nascere preferisce festeggiare se stessa in un’altra data.