C’era una volta un paese che votava con il sistema proporzionale. Quel paese era l’Italia, dove esistevano due grandi partiti in perenne competizione, e tante formazioni minori. Che uno dei due partiti fosse sempre al governo e l’altro sempre all’opposizione non è così importante. Ciò che importa, ai fini della nostra storia, è constatare che né l’uno né l’altro, da soli, furono mai in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei voti, e che per formare i governi furono quasi sempre necessari o accordi di coalizione prima del voto, o accordi tra i partiti dopo il voto, o tutte e due le cose insieme. E nessuno se ne scandalizzava, anche se una volta, nel 1953, il partito all’opposizione si oppose strenuamente a una legge che assegnava una forte maggioranza di seggi a chi avesse raggiunto il 50% dei voti, arrivando a definirla una “truffa”. Ma chi l’aveva fortemente voluta si fermò al 49,2 % dei consensi, e l’anno dopo la legge fu silenziosamente abrogata.
A distanza di tanti anni raccontare queste cose non è un semplice esercizio storiografico. Perché con le ultime elezioni il paese è tornato all’antico dopo una lunga parentesi di tipo maggioritario. Della legge attualmente in vigore è stato detto tutto e il contrario di tutto, ma curiosamente si tende a dimenticare che il suo impianto è saldamente proporzionale, perché i voti raccolti nei collegi uninominali sono gli stessi che definiscono i rapporti di forza tra i partiti e le coalizioni. Dunque, già prima del voto era evidente che dalle urne non sarebbe uscito un chiaro vincitore, così come è evidente che se si tornasse a votare con lo stesso sistema si avrebbero all’incirca gli stessi risultati. L’unica vera sorpresa l’hanno data i numeri sancendo la netta sconfitta del PD e di Forza Italia, che si erano inventati la legge con il palese disegno di raggiungere un accordo dopo il voto, con o senza la Lega, e di giustificarlo davanti ai propri riluttanti elettori con la copertura di un governo di emergenza nel superiore interesse del paese.
La possibilità di un governo di questo genere, guidato da una personalità al di sopra delle parti, è ancora sul tappeto, e quasi certamente il presidente Mattarella ci sta pensando. Ma non è detto che piaccia a chi oggi a vario titolo si sente titolato a governare, e soprattutto non è detto che non siano possibili altre soluzioni, più politiche. In un sistema proporzionale, infatti, le differenze programmatiche esibite in campagna elettorale contano molto meno dei numeri, e sono destinate a stemperarsi di fronte alla necessità di raggiungere un accordo di governo.
La storia, anche in questo caso, insegna. Come si conciliava il riformismo socialista con l’immobilismo democristiano? Eppure insieme portarono alla stagione del centro-sinistra e allo statuto dei lavoratori, che resta uno dei punti più alti raggiunti dallo stato sociale in Italia. Che cosa avevano in comune la cattolicissima DC e il laico PRI, oltre alla avversione per il blocco comunista, rappresentato in Italia dal PCI? Eppure il presidente del consiglio Spadolini istituì con la democristiana Tina Anselmi la commissione di inchiesta che svelò le trame antidemocratiche della loggia P2.
Altri tempi, certo. Altri uomini. Altri partiti. E se è vero che non si può pretendere troppo dalla politica attuale, tutta hashtag, cinguettii e salotti televisivi, è anche vero che almeno una delle forze in campo avrebbe tutto l’interesse a tentare la strada del ragionamento, dimostrandosi all’altezza della sfida che tanti suoi elettori gli hanno brutalmente posto, preferendogli le sirene pentastellate. Le scelte che il PD sconfitto, umiliato e senza guida farà nei prossimi giorni sono decisive per la sua sopravvivenza in quanto principale forza del centrosinistra in Italia. Non possono e non devono ridursi al vicolo cieco del #senzadime che potrà forse gratificare una parte dei suoi militanti delusi, ma condanna alla irrilevanza e a una quasi certa scomparsa.
Battista Gardoncini