Cesare Maestri è morto oggi a novantun anni. Era un alpinista straordinario. Aveva fatto il partigiano. Era comunista. Per questo, pur avendo più titoli di molti altri, fu escluso dalla spedizione al K2 guidata dal fascista non pentito Ardito Desio, che tra l’altro impedì di raggiungere la vetta all’altra stella dell’alpinismo italiano, Walter Bonatti, preferendogli Compagnoni e Lacedelli, non altrettanto noti al grande pubblico e quindi non in grado di offuscare il ruolo del capo spedizione.
Ma Cesare aveva le spalle larghe. Per tutta la vita aveva dovuto combattere con le unghie e con i denti. Nato a Trento, figlio di un attore girovago, si era battuto giovanissimo contro tedeschi e fascisti. Dopo la guerra raggiunse a Roma la sorella Anna, che si stava facendo strada nel mondo del cinema. Per mangiare fece il muratore, poi decise che preferiva il rischio delle montagne a quello delle impalcature, e tornò in Trentino. Saliva slegato dove gli altri piantavano chiodi su chiodi, ma era un “cittadino”, e i piccoli burocrati dell’alpinismo locale non lo ammisero ai corsi per diventare guida. Lui aspettò che i corsi finissero, e discese in libera, solitario, lungo la via che gli allievi stavano salendo per festeggiare il conseguimento del titolo. Sbalorditi, lo videro passare in mezzo a loro chiedendo educatamente il permesso.
Era fatto così, Cesare Maestri. Insofferente alle regole, alla disciplina, all’etica ammuffita di chi straparlava della “lotta con l’Alpe” come scuola di vita. Lui, salita dopo salita, divenne per tutti “il ragno delle Dolomiti”, e aprì all’alpinismo nuovi orizzonti, spesso scalando in solitaria e dimostrando che l’impossibile in realtà non lo era. Aveva una straordinaria forza fisica, una tecnica eccezionale, un enorme coraggio. Ed era orgoglioso.
Il suo nome è indissolubilmente legato al Cerro Torre, la più bella e difficile montagna della Patagonia, una parete di granito verticale sormontata da un fungo di ghiaccio. Ci andò con una spedizione leggera nel 1959, quando era difficile anche soltanto raggiungere la base della montagna, lontana da ogni centro abitato. Erano in tre: lui, l’austriaco Toni Egger e Cesarino Fava. Fava, che aveva perso le dita dei piedi in una precedente scalata, si fermò al campo base. Maestri e Egger continuarono a salire. Molti giorni dopo Fava ritrovò Maestri, stravolto, ai piedi della parete. Disse che lui e Egger erano arrivati in vetta, ma lungo la discesa una valanga li aveva travolti e Egger era morto.
Sull’esito della spedizione ci furono molte polemiche. Alcuni misero in dubbio l’impresa, e Maestri, sdegnato, decise che non avrebbe più arrampicato. Poi si ricredette e riprese a firmare imprese memorabili.
Nel 1970 Maestri decise di tornare al Torre con alcuni compagni. Scelse una via nuova, l’impervio spigolo Sud Est, che salì lungo la verticale piantando i chiodi con l’aiuto di un compressore. Una tecnica che fu considerata provocatoria, anche perché al suo ritorno Maestri disse che era arrivato in cima, e che se qualcuno non ci credeva poteva sempre andare lassù, dove aveva ancorato il compressore. Molti tentarono, e fallirono. La via fu ripetuta soltanto nove anni dopo dall’americano Jim Bridwell, che trovò il compressore e rese il giusto omaggio alle capacità del primo salitore.
Maestri è stato anche un ottimo scrittore. Il suo libro “Arrampicare è il mio mestiere”, pubblicato nel 1961 con la prefazione di Dino Buzzati, è un classico che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi ama la montagna, ma altri volumi sono arrivati negli anni successivi, con le sue riflessioni sul valore dell’alpinismo, sull’impegno civile, sulla malattia che ha dovuto superare, sulla famiglia.
Infine, Maestri è stato anche un nonno felice. Le poche righe dove rievoca una difficile arrampicata con la nipotina Carlotta, nove anni, che scrive sul libro di vetta di essere arrivata lassù con il “nonno Cesare”, sono tra le più commoventi che ha scritto.
Battista Gardoncini