Spopolano sul web, le “bufale”. Il termine è diventato di uso comune in questi tempi di post-verità, per indicare le notizie false, quelle che in inglese vengono definite “fakes”.
In Italia, si preferisce parlare di bufale perché è stato adottato un modo di dire tipicamente giornalistico, che però ha un significato un po’ diverso.
Prende una bufala il giornalista che da’ una notizia falsa credendola vera, senza i dovuti controlli, ma anche senza l’intenzione di ingannare il suo pubblico. Insomma, uno sprovveduto che non sa fare il suo mestiere.
Le nuove bufale hanno in comune con quelle giornalistiche soltanto il punto di partenza, una falsa notizia, che però viene fabbricata e diffusa in modo consapevole. Ad esempio, il viadotto crollato sulla Salerno-Reggio Calabria appena inaugurata, i campioni di profumo letale spediti dall’Isis in Europa, la meningite che arriva dall’Africa.
Alcune bufale sono divertenti. Altre di pessimo gusto. Altre si muovono sull’incerto confine tra la goliardia, la speculazione commerciale e la malafede. Altre ancora, più insidiose, sono accuratamente pianificate da squadre di professionisti per manipolare l’opinione pubblica, e in genere fanno parte di campagne che coinvolgono anche altri mezzi di comunicazione.
L’uso sistematico di questo tipo di bufale, anche a fini politici, è diventato oggetto di un preoccupato dibattito. Sono anche stati prospettati alcuni rimedi che rischiano di trasformarsi in forme di controllo sulla libertà del web a nostro parere inaccettabili.
Vale comunque la pena di ricordare che l’etimologia del termine “bufala” , per quanto incerta, sembra dare torto ai giornalisti e ragione a chi usa il termine nel suo nuovo significato.
La prima e più banale spiegazione ha a che fare con l’animale. Si basa sul fatto che per controllare un bufalo lo si trascina con una corda legata a un anello fissato sul naso. Da cui l’idea di prendere qualcuno per il naso e per condurlo dove si vuole. Intenzionalmente, e contro la sua volontà, proprio come troppo spesso accade sul web. Ma perché il femminile “bufala”? Forse perché nel dialetto romanesco esiste da molto tempo il modo di dire “rifilare una bufala”, per indicare la vendita di una cosa di poco valore a un prezzo molto alto.
Un’altra interpretazione fa riferimento all’uso di definire “bufalo” chi non brilla per prontezza e intelligenza, ma non spiega il femminile, che invece trova una sua giustificazione nelle antiche “bufalate”, feste di paese dove i bufali gareggiavano in una atmosfera allegra e scherzosa.
Secondo altri etimi i bufali non c’entrano. Qualcuno fa riferimento alla “pesca alla bufala”, dove le persone ingannate sarebbero simili ai pesci finiti in una rete trascinata da due imbarcazioni. Qualche altro ha pensato ai cacciatori mimetizzati nella boscaglia, e c’e’ stato anche chi ha ipotizzato una contaminazione tra “bufala” e “fabula”, che in latino significa anche “frottola” o “diceria”.
In ogni caso, sempre di inganni si tratta. Dunque diffidiamo.