Tante novità per Cannes 2018

Divi e divesse, registi e attori da copertina certo non ne mancano, ma quest’anno rispetto ad altri in cui le star erano costrette a sgomitare l’uno contro l’altro causa affollamento sembra esserci una sorta di moderazione. E poi, largo ai giovani anche se ormai in età avanzata rispetto all’ accezione comune, e agli sconosciuti, sebbene ben noti e apprezzati da chi ha la passione del cinema e lo segue con regolare attenzione, ma lontani dalle frequentazioni delle grandi platee.  E’ una delle tante immagini che offre il festival di Cannes numero 71, dall’8 al 19 maggio. Se non ha fatto di necessità virtù, magari non avendo trovato i film che voleva pronti e disponbili, potrebbe allora avere ragione l’accorto direttore Thierry Fremaux, responsabile della Croisette da una quindicina d’anni: abbiamo badato più alla qualità delle pellicole e scelto giovani registi più che le star. Potrebbe, appunto, essere vero. Ma se non c’è ressa di primedonne e primiuomini, non mancano invece le polemiche più o meno giustificate o alimentate ad arte, genere quest’ultimo in cui il festival di Cannes è maestro indiscusso.  Intanto però da un’occhiata al programma, accanto a quel mito del cinema che è Jean-Luc Godard, a 87 anni nel cartellone del concorso con Livre d’image, e all’americano Spike Lee con un film sul Ku Klux Klan, due dei film più attesi, spicca la presenza dell’Italia, quest’anno ben gratificata.

Quattro i film italiani,  due in concorso, che sono già tanti, e due nella prestigiosa sezione Un certain regard, la zona cinefila di Cannes. In competizione, tra i 21 film concorrenti, con la bandiera tricolore arriva Dogman, di Matteo Garrone, storia del “canàro” della Magliana, al secolo Pietro De Negri, condannato per la morte del pugile Giancarlo Ricci, episodio di trent’anni fa; c’è da notare che Garrone non si è avvalso di grandi nomi, di attori-civetta, seppure di valore universalmente riconosciuto anche a livello internazionale, come talvolta accade nel cinema italiano anche ad opera di registi venerati.E sempre in concorso c’è Lazzaro felice, di Alice Rohrwacher, sorella regista di Alba, che era già stata ospitata a Cannes con i suoi primi due film molto apprezzati, Le meraviglie, e Corpo celeste;  la Rohwacher, con la sorella tra gli interpreti, racconta la storia di un’amicizia e di una presa di coscienza, una crescita che potrebbe anche essere una decrescita, ma felice. Nel film anche Nicoletta Braschi, la signora Benigni. La sezione Un certain regard accoglie Euphoria, di Valeria Golino, al secondo film come regista, dopo un esordio molto interessante di un paio di anni fa con Miele. E’ la storia di due fratelli molto diversi, con Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea, Jasmine Trinca, Isabella Ferrari. E ancora il Certain regard presenta La strada dei Samouni, di Stefano Savona, esordiente nel lungometraggio: in un insieme di animazione e immagini particolarmente elaborate il dramma della guerra in medio Oriente attraverso una famiglia di Gaza.

Nella sezione Quinzaine des réalizateurs, a pieno titolo dentro il festival ma indipendente, nata nel ’68, c’è Troppa grazia, di Gianni Zanasi, regista di valore sebbene fuori dal circuito dei più sostenuti, con Alba Rohrwacher nelle vesti di una madre sola di fronte ai suoi sensi di colpa e ad annunciazioni misteriose. E per completare la presenza italiana a Cannes, bisogna aggiungere un cortometraggio di Marco Bellocchio, La lotta,  storia del giovane Tonino che entra ed esce dalle acque gelide del fiume Trebbia, dove si nasconde per sfuggire ai nazisti che lo braccano, e un altro cortometraggio, Così in terra, del giovane Pier Lorenzo  Pisano, che arriva dal Centro sperimentale di cinematografia di Roma.
In un’edizione di Cannes che fa a meno dei nomi dei grandissimi, o ne ha dovuto fare a meno, c’è da aspettarsi scoperte e conferme da registi che pur già di medio e lungo corso, sono noti soltanto ad appassionati, molto appassionati, e addetti ai lavori. Ed è un peccato che il mercato li ignori, o quasi, anche perché con un po’ di attenzione potrebbero conquistare spettatori non necessariamente di rito cinefilo. Ma, purtroppo, è il mercato bellezza.
Arrivano sulla Croisette dai cinque continenti, americani accanto a medio-orientali, giapponesi, cinesi, coreani, est europei. Una delle notizie di Cannes di quest’anno è il ritorno del danese Lars von Trier (grandi attenzioni e qualche spettatore scandalizzato aveva suscitato la sua ultima pellicola, Ninphomaniac),  dopo la maledizione che lo aveva colpito alcuni anni fa, quando sulla Croisette si era lasciato andare ad affermazioni di “comprensione” per Hitler. Cannes gli aveva giurato qualcosa di simile alla damnatio memoriae, l’espulsione a vita, ma dato che questi anatemi, specie nel mondo del cinema e non solo, non sono per sempre, ecco che i vertici del festival, dimenticato lo scandalo, lo riaccolgono come figliol prodigo con il film The house that Jack Built, la storia di un seriall killer con il volto di Matt Dillon. Chissà se il regista non sia dalla parte del serial killer! Del resto, tutte le interpretazioni sono possibili e da un cineasta come lui che non riesce a fare un film senza provocazioni, e ce ne fossero, c’è da aspettarselo. E in questo caso, lo scandalo sarebbe assicurato, e Cannes è già pronta a scandalizzarsi di nuovo. D’altra parte, vogliamo mica perderci un Lars von Trier che magari a fine agosto potrebbe andare a Venezia?
Dagli Stati Uniti va segnalato David Robert Mitchell con Under the silver lake, ambientato in una Los Angeles molto misteriosa che ricorda i sogni e gli incubi di David Linch.
Dal medio-oriente c’è l’iraniano Jafar Paanahi e dalla Russia Kiril Serebrennikov, che hanno in comune la sorte di vivere da vigilati speciali dei rispettivi regimi.
Dalla Polonia c’è attesa per Pavel Pawlikowski, che con Cold War in una storia d’amore tra personaggi opposti
rievoca il clima della guerra fredda, anni ’50, spaziando tra Berlino, Polonia, Jugoslavia, Parigi; il regista nel 2015 avevo ottenuto l’Oscar per il miglior film straniero con il film Ida.
Ancora tra i più attesi, c’è Everybody Knows, di Asghar Faradi, uno dei registi più acclamati degli ultimi anni, con due divi come Penelope Cruz e Javier Bardem.
C’è poi il nuovo Guerre stellari che racconta vicende collaterali della saga, regista un divo della regia come Ron Howard, grande amico dell’inventore della serie George Lucas.
Non mancano star anche nelle giuria: In primo piano la presidente Cate Blanchett, con Kristen Stewart, Léa Seydoux, e altre donne e uomini, con maggioranza femminile. Non poteva perdere l’occasione, Cannes, per sfoggiare un filofemminismo nobile quanto tardivo, francamente esagerato e anche un po’ sospetto di allineamento ai tempi che corrono. Se non altro per la sottolineatura della maggioranza di donne, che peraltro tutti si affrettano a rimarcare. Quando la maggioranza del maschile o del femminile finirà di essere un’eccezione di cui vantarsi, o da deprecare, e diventerà normale, dovremo inventarci qualcosaltro di cui parlare, indignarci o esserne fieri.
Del resto, il festival non si è lasciato sfuggire anche un titolo, come si dice, di stretta attualità , un film-documentario della Bbc su Harvey Weinstein. E così Cannes dopo avere riverito per decenni il potente produttore americano scopre che Weinstein aveva il vizietto di approfittare delle attrici desiderose di far carriera. E, orrore, uno degli innumerevoli abusi di cui tutti sapevano, ma di cui nessuno parlava, sarebbe avvenuto anche sulla Croisette.  E qui siamo nel campo delle polemiche, che tanto bene fanno ai festival.
Una, accanto a quelle più effimere, ha un’origine piuttosto inquietante: abolite le anteprime per i giornalisti, non già in quanto “privilegio”, ma perché il festival e i potenti produttori non gradirebbero le eventuali stroncature dei giornali on line e dei blog ormai lanciate subito dopo la proiezione dei film e molte ore prima della presentazione ufficiale dei film medesimi con tanto di lustrini, paillettes, applausi inchini e complimenti più che scontati e magari anche pilotati. Chi vuole scrivere e parlare dei film lo faccia alla sera tardi e il giorno dopo, quando stroncature, critiche e riserve risultano depotenziate dalle prime notizie di “ottima accoglienza” e ovazioni dello scelto e selezionato pubblico delle proiezioni ufficiali  (standing ovation, a parte ovviamente i paesi anglofoni, si dice solo in Italia;  in Francia se proprio qualcuno lo dice, biasimato perché cede all’anglomania, lo pronuncia”standìng ovasiòn”, alla francese, riconducendolo così in qualche modo alla sua lingua, seppure come riflesso condizionato). L’associazione dei critici francesi ha vivacemente protestato, e così hanno anche fatto i giornalisti di cinema italiani. Ma il festival non se ne è dato per inteso.
C’è poi la polemica Netflix, che ha ritirato i suoi film perché esclusi dal concorso in quanto il festival vorrebbe che le pellicole fossero proiettate nelle sale prima della trasmissione televisiva.
E ancora, l’incertezza ha accompagnato la presenza del film di Terry Gillian su Don Chisciotte, The man who killed don Quixote, per via di una disputa legale tra il produttore e il regista.
Infine non poteva mancare una polemica sugli autoscatti, da un paio d’anni detti selfie, che attori, registi, invitati e spettatori fanno sulla gradinata del palazzo del cinema che porta alla sala. E’ grottesco e ridicolo, ci vuole un po’ di decenza, ha sibilato il direttore di Cannes, Thierry Fremaux. Finalmente se ne sono accorti.
Nino Battaglia
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