Il “nobile giuoco”. Così venivano definiti gli scacchi quando l’italiano era la lingua dei colti e quello che accadeva nelle corti della penisola faceva – come si direbbe oggi – tendenza. Altri tempi, purtroppo. Dell’Italia già si sapeva. Degli scacchi c’erano state molte avvisaglie. Ma da oggi c’è la certezza, perché il campionato del mondo che si è appena concluso a Londra con gli spareggi vinti dal norvegese Magnus Carlsen sullo sfidante italo-americano Fabiano Caruana ha avuto ben poco di nobile, a cominciare dal regolamento.
Una sfida mondiale sulla brevissima distanza delle dodici partite, infatti, non ha alcun senso tecnico, perché invita gli avversari a non rischiare. Visto l’equilibrio delle forze in campo – Carlsen e Caruana erano separati da appena tre punti nelle classifiche mondiali – chi dei due avesse perso una partita non avrebbe avuto il tempo di recuperare. E il prevedibile e previsto risultato è stato una desolante sequenza di pareggi all’insegna del “primo non prenderle”.
Dopodiché il regolamento prevedeva una serie di spareggi a gioco rapido, e qui Carlsen ha dominato, vincendo tre volte di fila e conservando il titolo. Per fortuna, perché se ci fossero stati altri quattro pareggi si sarebbe arrivati a ulteriori spareggi “blitz”, e alla lotteria di un “armageddon” finale, dove il giocatore con il bianco ha un piccolo vantaggio di tempo, ma l’obbligo di vincere perché il pari viene considerato una vittoria del nero.
E’ del tutto evidente che una partita con cadenza di gioco classica (100 minuti di riflessione a testa per le prime 40 mosse, poi 50 minuti per le successive 20 e infine 15 minuti per il resto della partita, con 30 secondi addizionali per mossa a partire dalla prima) richiede strategie e tattiche molto diverse da una partita rapid (25 minuti di riflessione a testa più 10 secondi di incremento per mossa) o da una partita blitz (5 minuti di riflessione a testa, più 3 secondi di incremento). E infatti non è un caso che la federazione scacchistica mondiale preveda classifiche separate per le tre specialità.
Lasciar decidere il campionato del mondo con una formula siffatta è un pò come stabilire che i tennisti della finale di Wimbledon, chiusa la prima parte della loro sfida sul punteggio di un set a testa, salutino gli spettatori e proseguano il gioco su un tavolo da ping-pong. Sport degnissimo e spettacolare, per carità, ma molto diverso dal tennis.
Come si è arrivati a questo abominio? La risposta è una sola, ed è sempre la solita: soldi. I soldi degli sponsor, spaventati dalla prospettiva di una sfida troppo lunga per i mezzi di informazione e per un pubblico che in larga misura si avvicina agli scacchi con lo spirito del tifoso. Di Carlsen e di Caruana questo tipo di pubblico può forse apprezzare le camicie sponsorizzate e il gossip sulla presenza – o sull’assenza – delle fidanzate, ma certo non è in grado di capire quello che i due combinano sulla scacchiera, per il semplicissimo motivo che lo può fare soltanto chi agli scacchi ha dedicato molte ore di studio e di passione.
Un’ultima considerazione. Follow the money – segui il denaro – è uno dei motti del giornalismo investigativo. Applicandolo a questo mondiale, è interessante notare che Carlsen e Caruana avevano un certo interesse a concludere in parità la prima fase dell’incontro. Il solito regolamento, infatti, prevedeva un monte premi di un milione di dollari, che sarebbe andato per il 60% al vincitore e per il 40% allo sconfitto se la decisione fosse arrivata nelle prime 12 partite. Diversa la suddivisione nel caso di una vittoria negli spareggi: 55% al vincitore, 45% allo sconfitto. Insomma, dovendo scegliere tra la certezza di guadagnare 50 mila dollari in più e la possibilità di guadagnarne – ma anche di perderne – 100 mila, voi che cosa avreste fatto?
Battista Gardoncini