Pensate a quando eravate bambini: muri e palloni non sono mai andati d’accordo. Certo, con un po’ di gesso ci si può sempre disegnare formidabili porte degne dell’Olympiastadion. Ma in fondo, la partitella nel cortile vive sempre nel timore latente: un tiro sbilenco, una prodezza finita male, magari anche solo una grande respinta del portiere e la palla finisce oltre. Ecco, gioco finito. A Berlino però, fino al 1989 c’era il problema opposto. Potevate calciare forte quanto volevate, ma al di là di quel Muro il pallone non ci finiva.
Lutz Eigendorf nasce a Brandeburgo sulla Havel, 70 km ad ovest da Berlino, il 16 luglio 1956. Alto, tecnicamente dotato, Eigendorf diventa calciatore professionista piuttosto presto, è un centrocampista offensivo, uno che la palla la sa giocare anche se fa pochi gol; a neanche 15 anni approda alla Dinamo Berlino che è la principale squadra della Germania Est, un club che tanti nella nazione tedesca definiscono come quello del regime della Repubblica Democratica, in quanto il suo presidente è Erich Mielke, ovvero il ministro della sicurezza, ovvero il capo della Stasi. Il Muro di Berlino, si sa, impediva ai tedeschi orientali di varcare il confine e spostarsi ad ovest, e di ciò risentiva naturalmente anche il calcio, con il campionato suddiviso in due e la scissione anche della nazionale. Eigendorf, tedesco dell’est, entra a far parte di quel club, la Dinamo Berlino appunto, che segnerà la sua vita non solo a livello sportivo.
Il campionato 1978-79 sembra davvero quello decisivo per la Dinamo, pronta a conquistare quel titolo che insegue da decenni. La squadra è forte, Eigendorf a nemmeno 25 anni è uno dei pilastri di una formazione che ben presto si issa al comando della classifica staccando la Dinamo Dresda che si era aggiudicata gli ultimi tre titoli. Ma Lutz Eigendorf non prenderà mai parte alla festa scudetto di Berlino, perchè per lui diventerà più importante la libertà che la gloria sportiva. Il 19 marzo 1979 la Dinamo Berlino è chiamata a disputare un’amichevole contro il Kaiserslautern in Assia, nella cittadina di Gießen; è la grande occasione per tutti i calciatori di vedere cosa ci sia al di là del Muro, la grande occasione di varcare la cortina di ferro, il tutto, naturalmente, sotto strettissima sorveglianza degli organi di sicurezza, perchè nessuno può e deve avere l’opportunità di fuggire. Per ragazzi di 20-25 anni, a prescindere dal fatto che siano atleti professionisti, sbarcare in Germania Ovest significa vedere cose che nella parte orientale non ci sono, nè ci saranno mai: dischi, vestiti di marca, prodotti gastronomici stranieri, insomma un mondo che a Berlino Est hanno potuto solamente sognare.
L’amichevole col Kaiserslautern è persa 4-1 dalla Dinamo Berlino, ma poco conta, un po’ perchè la squadra della Berlino orientale sta per laurearsi campione nel suo campionato e un po’ perchè quei due giorni nella parte ovest sono troppo elettrizzanti per quei ragazzi che vogliono godersi anche solo per un momento la vita ricca e moderna che da loro non c’è. Nelle settimane precedenti, però, i calciatori della Dinamo Berlino sono stati addestrati a dovere da organi del club e di Stato, onde evitare fughe. Nessuno si sarebbe dovuto allontanare dal gruppo, non sarebbe stata vietata nessuna spesa e nessun diversivo agli atleti, ma guai a tentare di scappare e a non sottostare agli ordini e alle rigidissime misure di sicurezza. Lutz Eigendorf alle riunioni non dice nulla, ha già il suo piano, forse pensa a sua moglie Gabrielle e alla figlioletta Sandy che per un po’ sarà costretto a non vedere; perchè Eigendorf, quel 19 marzo 1979, non vuole comprare pantaloni e giacche firmate, non vuole portarsi a casa un disco dei Rolling Stones, vuole costruirsi una vita vera.
E’ lui l’ultimo a salire sul pullman della squadra, è lui il più taciturno mentre rumorosamente il mezzo fa manovra per uscire dal parcheggio dell’albergo alle 6:30 di una mattina ancora molto fredda. Qualcuno si soffia sulle mani per riscaldarle, qualcun altro coi guanti toglie freneticamente l’appannamento dai vetri dei finestrini per guardare tutto quello che c’è fuori. Eigendorf è silenzioso, anche se in realtà il cuore gli batte a mille: è stufo di quella vita e di quelle oppressioni, è stufo anche del suo club che è controllato da quel governo che gli sta togliendo libertà di pensiero e felicità, chi se ne importa che sta per vincere lo scudetto. Una volta arrivati al centro della città, approfittando della confusione generale di chi scende dall’uscita posteriore, chi da quella anteriore, chi spinge per far presto, chi si lamenta per un piede fortuitamente calpestato, Eigendorf si perde tra la folla di gente, senza mettersi a correre, senza attirare l’attenzione, sa che prima che si accorgano della sua assenza ci vorrà qualche minuto, così svolta per una via laterale e si infila nel primo taxi libero che incontra, poi dice semplicemente al tassista: “Parti a razzo, non mi importa dove vai, basta che ci allontaniamo da qui”. E il taxi vola via.
La fuga di Lutz Eigendorf viene scoperta poco dopo, la Stasi sguinzaglia i suoi agenti ma ormai è troppo tardi, del calciatore si sono perse le tracce, il governo di Berlino Est è su tutte le furie. La casa dell’ormai ex calciatore della Dinamo viene pattugliata e piantonata giorno e notte, moglie e figlia seguite ovunque vadano, perchè tutti sanno che Eigendorf potrebbe aver studiato un piano per portarle ad ovest con sè.
A Berlino Est, infatti, la fuga di Eigendorf brucia ancora: non soltanto qualcuno è riuscito a fuggire ad ovest (Eigendorf non è il primo e non sarà l’ultimo), ma chi lo ha fatto, stavolta, è un tesserato della squadra di calcio sotto stretto controllo della Stasi, un organo che non può mostrare alcuna debolezza. L’organizzazione di sicurezza, tanto per cominciare, convince la signora Gabrielle, la moglie di Eigendorf, a divorziare dal marito e a sposare un agente, altra mossa per controllare meglio la situazione. Anche Eigendorf si risposa, oltre a conoscere diversi ex atleti della Germania Est, passati nel frattempo ad ovest e che lo rassicurano sulla tranquilla esistenza da vivere dopo il grande tradimento. Ma per Eigendorf è Erich Mielke in persona ad aver riservato un trattamento particolare, perchè il suo affronto è stato peggiore degli altri, perchè il suo regime non può tollerare il voltafaccia di una delle stelle della squadra di rappresentanza.
Il 21 febbraio 1983 Eigendorf si fa intervistare dalla televisione: è seduto dietro al Muro di Berlino, sorride, quasi beffardo, come se stesse rivolgendosi allo stesso Mielke, parla della bellezza della parte ovest del paese, suggerisce agli atleti dell’est di fare il salto, indica come marcio il calcio della Germania Est, critica l’intero sistema di una parte del paese che non gli appartiene più e che non ha mai approvato. Con questa intervista, simbolicamente, Lutz Eigendorf firma indirettamente la sua condanna a morte peraltro stabilita ormai da tempo: nella tarda serata del 5 marzo 1983, infatti, il calciatore perde il controllo della sua Alfa Romeo Alfetta GTV, una macchina assai di moda fra i giovani dell’epoca, ritenuta una delle più belle in assetto sportivo, all’altezza di una curva molto pericolosa sulla strada Braunschweig-Querum e si schianta contro un albero. Le sue condizioni vengono dichiarate immediatamente disperate ed Eigendorf morirà poco più di 30 ore dopo e senza aver mai ripreso conoscenza. Nel suo sangue verranno trovate discrete tracce di alcol e tanto basterà ad archiviare il caso come semplice morte per guida in stato di ubriachezza, nonostante la testimonianza dell’oste della birreria nella quale il calciatore aveva trascorso la serata e che parlerà di appena due birre consumate.
Lutz Eigendorf muore a 27 anni, nel pieno della sua attività agonistica, e la sua storia cade nel dimenticatoio. Fino all’abbattimento del Muro di Berlino e allo scoperchiamento delle angherie perpetrate dalla Stasi, grazie allo sdoganamento dei riservatissimi documenti di Stato. Il giornalista Heribert Schwan pubblica “Tod der Verrater” (Morte del Traditore) nel quale si evince come gli agenti del Servizio di Sicurezza, su precisa volontà di Erich Mielke abbiano agito direttamente su Eigendorf determinandone la morte. Gli agenti, stando al documentario, avrebbero bloccato l’auto del calciatore e, sotto minaccia di una pistola, lo avrebbero obbligato ad ingerire sostanze chimiche allucinogene ed in grado di annebbiare la vista, costringendolo poi a rimettersi al volante riprendendo la sua strada, sicuri che di lì a poco Eigendorf si sarebbe schiantato.
Nessuna certezza, nessun nome degli esecutori materiali, nessuna chiarezza su una storia torbida, legata ad un’epoca torbida della Germania: Lutz Eigendorf è morto probabilmente per un tradimento che i vertici della Stasi non hanno gradito, anzi, hanno ritenuto l’affronto più grave che gli si potesse fare. Erich Mielke non poteva accettare che proprio il calciatore destinato a diventare capitano e simbolo di quella Dinamo Berlino che avrebbe dominato il campionato della Germania Est per 10 anni ,gli avesse tirato quel colpo così basso. La morte di Lutz Eigendorf è ancora oggi avvolta nel mistero, almeno ufficialmente, e di quel ragazzo restano le gesta da calciatore non ancora del tutto affermato, la fuga in una fredda mattina di marzo e le immagini sinistre della sua Alfa distrutta da uno schianto mai del tutto chiarito. E pensare che Eigendorf, in fondo, voleva soltanto vedere cosa ci fosse al di là del Muro.
Marco Patruno