Ci sono tanti modi per parlare di calcio. Quelli urlati, che alimentano gli aspetti più beceri del tifo e la violenza dentro e fuori gli stadi, non ci piacciono. Per questo abbiamo chiesto a Marco Patruno di raccontarci un calcio diverso, attraverso le storie, a volte allegre, a volte tristi, ma sempre belle, di alcuni grandi calciatori. E lui ha scelto di incominciare con l’uomo che seppe dire di no a Pinochet.
21 novembre 1973, Santiago del Cile. A poco più di due mesi dal golpe militare che ha portato al potere Augusto Pinochet, leader di una spietata dittatura destinata a resistere per più di quindici anni, il Cile si gioca il pass per i Mondiali di Germania del 1974 contro l’Unione Sovietica. Il 26 settembre, la Roja ha strappato un prezioso 0-0 nelle gara d’andata, a Mosca. Per la sfida di ritorno, i sovietici si rifiutano di giocare allo Stadio Nazionale, trasformatosi in un patibolo dove venivano giustiziati dissidenti, oppositori e nemici politici del regime. La FIFA ignora la richiesta di disputare altrove la gara di ritorno, che alla fine si “gioca” dove prestabilito: in campo però, ci va solo il Cile. Dopo il fischio d’inizio, i giocatori avanzano nella metà campo deserta passandosi il pallone a vicenda. Carlos Caszely quel giorno è lì, tra gli undici in maglia rossa, costretti, loro malgrado, a prendere parte alla grottesca pantomima, e un pensiero gli passa per la testa, con la palla tra i piedi ad una manciata di metri dalla porta: “adesso la tiro fuori“. E invece no, la gioca per il capitano Valdes, che scaglia in rete un destro intriso di sdegno e disgusto. Triplice fischio. Ufficialmente, il Cile vince 2-0 a tavolino.
Il regime ha avuto il suo trionfo e lo celebra con una parata. Caszely però non dimentica l’onta di quel pomeriggio, proprio lui, che dai tempi del liceo si interessa di politica: durante le elezioni del 1970 è aperto sostenitore dell’Union Popular che fa capo a Salvador Allende.
L’11 settembre, Allende muore per mano dei golpisti di Pinochet, che assurge al potere per instaurare una sanguinaria dittatura che troverà in Caszely uno dei più fieri oppositori: alla vigilia della partenza per la Germania per i mondiali del ’74, il dittatore convoca la Nazionale per un saluto dal vago retrogusto di propaganda. Tutti gli stringono la mano. Meno uno. Caszely. A braccia conserte dietro la schiena. Sarà sempre così di lì in poi. Il “gran diniego” consacra Caszely alla storia popolare del suo paese come “Rojo”.
Ritiratosi dal calcio giocato nel 1986, continuò a schierarsi in prima linea per combattere il regime di Pinochet, prossimo ad imboccare il viale del tramonto. Alla vigilia del plebiscito del 1988, Caszely è in prima linea nella campagna elettorale contro il rinnovo del mandato presidenziale del dittatore. Va in video e ci mette la faccia, in uno spot a favore del “no”: c’è anche una donna anziana, dal volto pulito e dall’aria distinta, che racconta tutte le atrocità subite dalla dittatura nel periodo in cui era una delle tante desaparecide. Si chiama Olga Garrido. E’ la madre di Caszely, rapita subito dopo la partenza del figlio per la Spagna. Caszely la affianca e aggiunge: “Per questo dico no: perché la sua allegria, è la mia allegria. Perché i suoi sentimenti, sono i miei sentimenti. Perché un domani possa vivere in democrazia, libera e sana. Perché questa splendida signora è mia madre“.
Giocatore elettrico e implacabile -il miglior attaccante cileno prima della generazione d’oro che produsse Salas e Zamorano – ma soprattutto personaggio profondo, molto più d’una sagoma di campione, piatta, stinta dal tempo che imbianca i capelli e sbiadisce i ricordi. Quello di Carlos Caszely rimarrà vivido come il rosso delle maglie del Cile. Rosso di sangue e di passione.