La guerra di Wim

C’ era una volta un uomo solo in una stanza d’albergo. La fanno sempre cominciare così, la storia di Willem van Hanegem, come se il momento che le dà forma fosse quell’ora di amarezza: Olanda e Germania al banchetto conclusivo del Mondiale 1974, lui no. Come se la sua assenza avesse davvero stupito qualcuno. Lui che in fondo non s’era visto nemmeno alla premiazione. Lui che se n’era andato voltando le spalle allo stadio e all’intero Paese, senza stringere nemmeno una mano, figuriamoci scambiare una maglia. L’oggetto dell’odio tenace di Wim van Hanegem è il popolo tedesco. Tutto, senza distinzioni. Perché la storia di Van Hanegem, così come viene raccontata di solito, rimanda sempre all’alba dell’11 settembre 1944. È il giorno in cui Breskens, la sua cittadina natale nei pressi di Rotterdam che in quei giorni si trova in piena linea del fronte, è oggetto di un bombardamento della Luftwaffe. Fra le vittime civili ci sono anche il padre, il fratello e due sorelle di Wim, che allora ha poco meno di sette mesi ed è sfollato con la madre in campagna. La guerra in Olanda finisce il 5 maggio 1945. La guerra personale di Van Hanegem contro i tedeschi non finirà mai. “Ogni partita contro i tedeschi mi faceva arrabbiare – confessava – non mi piacciono. Ogni volta che ho giocato contro di loro, ho avuto problemi per via della guerra. In effetti, di problemi Wim ne aveva anche quando giocava accanto ai tedeschi. E’ suo l’intervento che chiude le porte della nazionale a Willi Lippens Lippenn olandese nato in Germania. Così, come raccontano tutte le narrazioni del 7 luglio 1974, nella finale di Monaco per lui non ne va di un Campionato del Mondo. Ne va della guerra. La guerra che trent’anni dopo la fine della guerra Van Hanegem continua a combattere.

A Rotterdam lo chiamavano De Kromme, lo storto, e non solo per le gambe arcuate. Il fatto è che fin da quando da bambino giocava per la strada, Van Hanegem aveva sempre preferito colpire la palla in modo bizzarro, usando l’esterno del piede. Di fatto quando calciava né lui né i suoi avversari sapevano bene che giro avrebbe preso la palla: una curva, questo sì, una bellissima curva che si sapeva dove cominciava ma non dove sarebbe finita. Per strada andava anche bene, solo che Wim non aveva perso il vizio nemmeno quando, nel 1968, era stato acquistato dal Feyenoord. Lì il gusto istintivo per le curve si era razionalizzato: quando diventa il cervello della prima squadra olandese vincitrice della Coppa dei Campioni nel 1970 ha ormai il pieno controllo di ogni gesto. I tifosi del De Kuip si abituano a quel suo strano modo di toccare il pallone, anche perché le traiettorie dei suoi lanci hanno ormai una precisione millimetrica e al repertorio si sono aggiunti anche calci di punizione da ogni posizione e un gran tiro da lontano. Eppure, nonostante tanta inopinata bellezza, non è questo che fa innamorare la gente di Rotterdam. Wim lo storto è amato innanzitutto perché incarna perfettamente l’anima portuale del Feyenoord, perché è un duro. L’allenatore, il viennese Ernst Happel, sperimenta per  la prima volta  la marcatura a zona in tutto il campo, quindi dalla sua posizione in mediana Van Hanegem non ha un avversario diretto cui badare: le marcature scalano a seconda dello spazio di gioco, il che vuol dire che nessuno degli avversari può sentirsi al sicuro dai suoi implacabili tackle. 

D’altra parte, Neeskens non era storto e poi piaceva a Rinus Michels. Su Wim, invece, il futuro allenatore della nazionale olandese, non era mai stato del tutto convinto. È che per disegnare le sue curve, non aveva bisogno di correre, e per fermare gli avversari non serviva rincorrerli, magie della zona, ma questa è un’altra storia. Della nazionale era comunque un punto fermo sia in campo sia nello spogliatoio fin dal 1968. Di una nazionale che non riusciva a qualificarsi a un Campionato del Mondo dal 1938. Quando finalmente ci riesce nel 1974, la spedizione comincia male ancora prima di lasciare l’Olanda. A una manciata di settimane dalla partenza per la Germania, la federazione, messa con le spalle al muro dai giocatori che di fatto sfiduciano il ct František Fadrhonc, chiama disperata Rinus Michels, in quel momento allenatore del Barcellona. Che la porti lui al Mondiale, la nazionale di cui il suo Ajax si è praticamente impossessato. Il Generale Rinus avrà pure le sue riserve sul passo Van Hanegem, ma sa che non può fare a meno dei suoi passaggi millimetrici e ancora meno dei suoi contrasti.

Finita la finale mondiale di quel 7 luglio Vim non riesce nemmeno a guardare i tedeschi. Lascia il campo e non ci torna nemmeno per ritirare la medaglia del secondo posto, che lo prendano gli altri il premio per quest’altra beffa. Non vuole vicino nessuno, neanche il suo migliore amico e compagno di squadra nel Feyenoord Wim Jansen. Si arriva così all’uomo solo in una stanza d’albergo, quello di Monaco che ospita l’Olanda. Forse mai come questa sera, solo in una stanza mentre da qualche parte i suoi compagni fraternizzano con i tedeschi (il banchetto ufficiale in realtà si trasforma in un clamoroso flop, ma questa è un’altra storia ancora).

Non è mai solo una partita di calcio. E per i sopravvissuti come Wim Van Hanegem ci sono cose che vanno oltre. Persino più importanti di una vittoria nella finale dei mondiali.

Marco Patruno

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