La Coppa dei Campioni 1963-1964 resta in Italia e a Milano. Sono infatti i nerazzurri di Helenio Herrera a raccogliere il testimone dai “cugini”, che pure partecipano in quanto campioni in carica. La costruzione della Grande Inter è stata dura e laboriosa, il magnate del petrolio Angelo Moratti ha cambiato allenatori e campioni in serie, prima di trovare la formula giusta.
Col “Mago” Helenio Herrera in panchina e il geniale direttore Italo Allodi nella stanza dei bottoni è nata una squadra straordinaria, cui l’inattesa esplosione del giovane talento Sandrino Mazzola, figlio del grande Valentino.
Il sorteggio non è agevole, i nerazzurri debuttano al “Goodison Park” di Liverpool contro l’Everton. Con una prova gagliarda Corso e compagni conservano lo 0-0 di partenza e passano poi il turno con una rete di Jair a Milano.
Negli ottavi entra in gioco anche il Milan, che elimina agevolmente il Norrköping, mentre l’Inter ha la meglio sui francesi dell’AS Monaco, di ben altra pasta rispetto agli inglesi. Nei quarti si arena la corsa del Milan contro il redivivo Real Madrid, che mette al sicuro la qualificazione al Chamartin con un 4-1 protetto a San Siro con qualche trepidazione (0-2). Per l’Inter invece il doppio confronto con il Partizan si rivela meno ostico del previsto e il visto per la semifinale viene strappato comodamente.
Nel penultimo atto della competizione i nerazzurri si trovano opposti al Borussia Dortmund. Al termine di una durissima battaglia in Germania l’Inter strappa un preziosissimo 2-2 agli assatanati tedeschi. A San Siro si risolve tutto per il meglio, Mazzola e Jair spingono l’Inter in finale. Ad attendere i nerazzurri al “Prater” di Vienna c’è il Real Madrid, che nonostante l’età avanzata dei suoi alfieri si è dimostrato uno schiacciasassi durante tutta la manifestazione.
A Vienna, nella magica cornice del Prater, l’Inter affronta la storia. Sulle gradinate, ci sono 20mila italiani, protagonisti di una delle prime “migrazioni di massa” del pallone. Helenio Herrera azzecca tutte le mosse: Tagnin francobolla Di Stefano, alla sua ultima partita in maglia bianca, Guarneri morde i garretti di Puskas, Facchetti blocca Amando, Burgnich spegne la velocità di Gento e in più Suarez arretra occupandosi di Felo. Bloccati gli uomini chiave, non mancano i campioni del gol. Mazzola con una doppietta strepitosa e Milani con l’acuto finale suggellano il risultato. Suarez, ex Barcellona, si prende la rivincita sui rivali di sempre, proprio come Herrera, che vide la propria stella tramontare in Catalogna dopo l’eliminazione patita nel 1960 contro il Real Madrid in semifinale.
La finale di Vienna consacra definitivamente la stella di Sandro Mazzola, che si libera dell’etichetta di figlio del grande Valentino e prende a brillare di luce propria. A 14 anni è entrato nel vivaio dell’Inter e a 19 ha debuttato in prima squadra, segnando su rigore, nella partita contro la Juventus in cui Moratti, per protesta, aveva mandato in campo la Primavera. Sandrino, non ancora ventenne, diventa titolare inamovibile nella stagione del primo scudetto della Grande Inter e anzi il suo ingresso in pianta stabile in luogo di Maschio dà la svolta al campionato. Il suo ruolo non è più regista, ma interno di punta. In questa posizione i suoi dribbling, la sua agilità, i suoi scatti e la sua tecnica individuale vengono esaltati. Al Prater quando guida l’Inter alla conquista della Coppa Campioni non ha ancora compiuto i ventidue anni. “ho rivisto Valentino” confiderà Puskas, in una intervista di qualche anno dopo.
L’anno successivo la decima edizione della Coppa dei Campioni vede al via un lotto di pretendenti alla vittoria finale molto ampio. Oltre ai detentori dell’Inter, il mai domo Real Madrid, il Benfica di Eusebio e Coluna, il coriaceo Rangers Glasgow e il Liverpool, al debutto nella competizione.
L’Italia presenta nuovamente al via due squadre, insieme all’Inter c’è anche il Bologna campione d’Italia. I rossoblu bagnano l’esordio con una a dir poco sfortunatissima eliminazione contro l’Anderlecht di Paul Van Himst. I felsinei perdono 1-0 a Bruxelles, ma a Bologna vincono 2-1 con reti di Pascutti e Nielsen. Tutto è così rimandato alla “bella” di Barcellona, dove al termine dei 90′ regolamentari e dei 30′ supplementari il risultato non si è ancora schiodato dallo 0-0. A questo punto il regolamento prevede il lancio della monetina, che al primo tentativo cade clamorosamente in… piedi conficcandosi nell’erba. Il secondo tentativo è invece favorevole ai belgi. Una beffa.
L’Inter si presenta con l’ossatura dell’anno precedente, arricchita dagli innesti dell’interno Peirò, del tornante Domenghini e del centromediano Malatrasi. Dopo la passeggiata negli ottavi di finale contro la Dinamo Bucarest, i nerazzurri se la vedono, nei quarti di finale, con gli arcigni scozzesi del Rangers. Peirò è decisivo a San Siro con una doppietta nel 3-1 che mette l’Inter moderata-mente al sicuro circa il passaggio del turno. Negli altipiani le mischie prodotte dai Rangers sortiscono solo una rete e gli uomini di Herrera guadagnano l’accesso alle semifinali. Il sorteggio oppone l’Inter al temibilissimo Liverpool, qualificatosi grazie alla monetina al termine di tre tiratissime sfide contro il Colonia nei quarti.
L’andata si gioca a Liverpool e “Anfield Road” è un catino ribollente di tifo e passione; in cui i Reds attaccano senza soluzione di continuità, riuscendo a schiacciare un’Inter troppo prudente per 3-1. Tutto sembra perduto, ma a San Siro accade il miracolo, dando vita a una delle sue prestazioni più esaltanti. Tra i tre gol, quello di Peirò che beffa il portiere Lawrence entra nella leggenda nerazzurra. Non si chiama ancora remuntada, mal goduria è uguale.
La finale si gioca a Milano contro il fortissimo Benfica, alla quarta finale negli ultimi cinque anni. La partita pattina su un terreno ai limiti della praticabilità a causa della pioggia torrenziale che ha imperversato su Milano per tutto il giorno. Lo spettacolo, anche per via del campo, non è eccelso, ma l’Inter offre una interpretazione tattica perfetta: chiude ogni varco alle velleità offensive avversarie: e riparte con micidiali contropiede, falliti da Peirò, Jair e Mazzola. Alla fine del primo tempo, un tiro di Jair sembra comoda preda del portierone Costa Pereira, grande numero uno, che tuttavia si fa ingannare: il pallone gli scivola sotto le terga regalando alla Grande Inter la seconda Coppa dei Campioni consecutiva.
Il gol di Joaquim Peirò contro il Liverpool nel ritorno delle semifinali a San Siro rappresenta forse il punto di svolta, il momento decisivo nella rincorsa dell’Inter alla seconda Coppa Campioni consecutiva. Probabilmente altri giocatori avrebbero meritato un tributo. Per esempio Jair, decisivo in finale, oppure il gran regista Suarez, o il raffinato inventore Corso, ma senza l’astuzia di Peirò difficilmente l’Inter avrebbe fatto bis. Lo spagnolo era il terzo straniero dei nerazzurri e in campionato non giocava mai, poiché potevano scendere in campo solo due stranieri per squadra e l’Inter aveva Jair e Suarez. Era però una pedina fondamentale in coppa: nei quarti aveva affossato i Rangers con una doppietta, ma il capolavoro lo compi in semifinale, dove i nerazzurri erano chiamati all’impresa disperata a Milano. All’ottavo minuto segna Corso. Un minuto dopo il portiere Lawrence si appresta al rinvio, Peirò gli sguscia accanto, gli sottrae il pallone e lo depone nella rete incustodita. San Siro esplode. L’Inter con il morale alle stelle completa la rimonta con Facchetti nella ripresa e si lancia verso il secondo successo continentale.
Marco Patruno