Nel 1986-1987, dopo ventun anni, la Coppa dei Campioni riprende la strada della penisola iberica. Come l’anno prima la Steaua, anche il Porto non era annoverato tra i favoriti della vigilia. Una squadra che l’allenatore Artur Jorge aveva impostato sull’attacco: casa o trasferta non importava, l’imperativo era vincere imponendo il proprio gioco. Le stelle non mancavano: il due volte Scarpa d’oro Fernando Gomes, l’algerino Rabah Madjer e l’enfant prodige Paulo Futre, grande talento del calcio portoghese, che soprattutto per gravi problemi fisici avrà una carriera nettamente inferiore alle aspettative. Il cammino dei lusitani fino alle semifinali non è dei più impegnativi, i maltesi del Rabat Ajax e i cecoslovacchi del Vitkovice vengono superati in scioltezza, mentre leggermente più ostico si rivela il Bröndby nei quarti.
Il secondo turno è fatale alla Juventus, eliminata nello scontro stellare con il Real Madrid, e ai detentori della Steaua, superati dall’Anderlecht che nei quarti capitolerà col Bayern Monaco.
Le semifinali presentano così una grande classica, Bayern-Real, e una novità, Porto-Dinamo Kiev, sfida tra due nuovi modi di vedere e interpretare il calcio. Nell’andata la Dinamo di Lobanovski limita i danni e torna in Urss con un passivo accettabile (1-2). Il Real invece crolla all’Olympiastadion, anche a causa di un arbitro, lo scozzese Valentine, che assegna un rigore dubbio ai tedeschi e fa saltare i nervi ai madridisti che finiscono in 9. Al ritorno il Porto si impone a sorpresa anche a Kiev, dove non cerca di amministrare il vantaggio dell’andata, ma gioca a viso aperto, imponendo un vigoroso stop al calcio futuribile di Lobanovski.
A Madrid il Real è chiamato all’ennesima rimonta, ma questa volta la legge del Bernabeu, più volte testimone negli ultimi anni di clamorose rinascite, non viene applicata e il Bayern, col fiatone, si accomoda in finale.
La finale va così in scena al Prater, con i tedeschi favoriti, anche perché il Porto lamenta le assenze di Gomes, Jaime Pacheco, Casagrande e Lima Pereira. Il primo tempo è di marca tedesca soprattutto dopo il fortuito gol di Kögl, lesto ad appoggiare in rete di testa a porta sguarnita un inaspettato assist dell’avversario Magalhães che, sempre di testa, aveva messo fuori causa il suo portiere. Sulle ali dell’entusiasmo, il Bayern costruisce altre palle gol soprattutto con Rummenigge bravo a procurarsele quanto maldestro a sprecarle.
Nell’intervallo Artur Jorge azzecca La sostituzione inserendo il brasiliano Juary, ex del calcio italiano. Il Bayern cala e i portoghesi assumono il controllo del gioco. Juary è una spina nel fianco della difesa bavarese. Si arriva così a dodici minuti dal termine, quando entra in scena la coppia Madjer-Juary. Il brasiliano fugge sulla destra, entra in area e porge un assist all’algerino, che con un colpo di tacco “il tacco di Allah” è il suo soprannome, insacca. Due minuti dopo Madjer ricambia, pennella un cross da sinistra sul quale Juary anticipa Pfaff e manda in scena i titoli di coda su questa edizione.
In Italia, più che per i suoi gol, Dos Santos Riho Juary Jorge, semplicemente Juary, era noto per la curiosa esultanza che seguiva le sue segnature, una danza intorno a una bandierina del calcio d’angolo. Attaccante rapido e opportunista in area di rigore, da noi aveva incontrato fortune alterne. Dopo due buone stagioni ad Avellino passa all’Inter, dove fallisce la prova. Le ultime due annate italiane Ascoli e Cremonese sono difficili a causa di problemi fisici. Si accasa in Portogallo, al Porto, e a Vienna è l’uomo decisivo, entra all’inizio della ripresa e ribalta la partita. È la sua grande rivincita campione d’Europa da protagonista.
A sostituire il Trap, che ha lasciato con l’ennesimo scudetto, e arrivato Rino Marchesi, alla prima esperienza su una panchina prestigiosa. L’acquisto più significativo dell’estate è quello di Soldà, libero di buona tecnica proveniente dall’Atalanta e in predicato di raccogliere l’eredità di Scirea, anche se i risultati deluderanno le aspettative. Il primo turno contro gli amatori del Valur Reykjavik è una formalità e non ha nulla a che vedere con quello che aspetta la Juventus alla tappa successiva. L’urna di Zurigo infatti accoppia i bianconeri al Real Madrid dall’attacco atomico, con Butragueño, Hugo Sanchez e Valdano. La Juve si presenta al Bernabeu senza Scirea rimpiazzato da Soldà, con Cabrini appena rientrato da una lunga assenza e Miki Laudrup afflitto da pubalgia e schierato da Marchesi quasi come specchietto per le allodole.
I madridisti partono a tamburo battente e la Juve operaia, con i primi violini Platini e Laudrup spettatori non paganti, si difende con ordine senza mettere mai la testa fuori dal guscio. Così Tacconi risulta il migliore in campo, compiendo almeno tre grandi interventi, il Real colpisce un palo, reclama un rigore abbastanza netto per fallo di Favero su Butragueño e passa solo al 20′ con lo stesso “Buitre” abile ad anticipare Favero dopo un’incursione di Valdano a sinistra.
La Juve esulta per aver limitato i danni, ma nel ritorno di Torino, pur dando una splendida dimostrazione di forza, coraggio e cuore, e dominando l’avversario, non riesce a concretizzare l’evidente superiorità. La partita è intensissima, Cabrini dopo soli otto minuti pareggia il risultato di Madrid con una stilettata in diagonale da sinistra. C’è praticamente tutta la partita per trovare il gol qualificazione, ma la Juventus non scardina il bunker madrileno. Mauro gioca una delle migliori partite della carriera, Bonini e Manfredonia corrono per quattro, Platini è generosissimo ma il fisico è al lumicino e Laudrup deve sempre combattere con malanni muscolari. Il Real non sta a guardare e Tacconi è chiamato a grandi interventi anche in questo incontro. I supplementari non sbloccano la situazione e si arriva ai rigori. Il Real spara subito le sue migliori cartucce, mentre la Juve sceglie la strategia contraria, tenendo Platini per ultimo. Errore fatale. Tra i bianconeri segna solo Vignola, falliscono Brio, Manfredonia e Favero. Il rigore di Juanito rende inutile l’esecuzione di Platini e manda avanti gli spagnoli. Un risultato duro ma giusto, perché la Juve ha di fatto giocato solo la partita di ritorno, mentre gli avversari anche a Torino hanno tenuto testa ai bianconeri, attaccandoli senza paura.
Marco Patruno