I piedi scalzi, segno di povertà. I pugni alzati e i guanti neri, simbolo del Black Power. La testa reclinata, lo sguardo rivolto in basso e una collanina al collo di piccole pietre, omaggio “a ogni nero che si è battuto per i suoi diritti ed è stato linciato”. Il 16 ottobre 1968, sul podio olimpico di Città del Messico, Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo statunitensi nei 200 metri, si fanno storia. E con loro anche Peter Norman, l’australiano che per solidarietà con i due atleti afro-americani indossa la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights.
Nell’aria c’è il vento della contestazione, l’odore del piombo e del sangue di piazza delle Tre Culture, nel cuore di ogni nero americano il dolore per l’assassinio appena sei mesi prima di Martin Luther King. Per mesi gli atleti di colore ipotizzano di boicottare i Giochi. Il comitato olimpico statunitense cerca di far rientrare la protesta, attraverso metodi più o meno leciti, e più o meno convincenti modi di persuasione.
Sì perché il momento cruciale era quello, non la gara. Non volevano entrare nella storia correndo, volevano entrarci scolpendo un immagine nella memoria della gente. Sapevano già che ci sarebbero saliti su quel podio, erano troppo forti per non salirci, dovevano solo decidere il modo migliore per farlo e per gridare in silenzio la loro rabbia .
Smith, Carlos e Norman, simboli di una protesta che ha fatto la storia e che fu pagata con l’emarginazione. Vessati, puniti, ostracizzati dal sistema, dal potere contro cui alzarono il pugno. Vennero cacciati dal villaggio olimpico, Smith e Carlos. Uno visse poi lavando auto, l’altro come scaricatore al porto di New York. Minacciati, continuamente. Non più atleti, non più uomini, ma appestati. Espulsi persino dall’esercito per indegnità. Miglior sorte non toccò a Peter Norman. Colpevole di aver mostrato interesse verso la causa dei due americani, e colpevole di essere presente in una delle immagini di protesta più famose della storia, anche Peter non poté più partecipare a nessuna competizione internazionale. Alla sua morte nel 2006 c’erano ancora al suo fianco Smith e Carlos, il loro legame era diventato indissolubile. Questa volta le loro mani erano aperte, sulla schiena portavano la sua bara.
Il 12 ottobre 2012 il Parlamento australiano riconobbe il ruolo che Peter Norman ebbe nel promuovere l’uguaglianza razziale, scusandosi inoltre per il trattamento ricevuto al suo ritorno in Australia nel 1968.
Tre velocisti, tre uomini che quel 16 ottobre di cinquanta anni fa su quel podio chiesero rispetto e giustizia. Fecero la storia. E oggi sono ancora qui a farla, con quella foto che ci ricorda che la difesa dei diritti civili e umani è una partita che non è mai chiusa.
Marco Patruno