La storia di Mario D’Agata ha toccato nel profondo le corde sentimentali degli Italiani, che negli anni ’50 stavano rialzando la testa dopo i disastri della guerra. Mario nacque ad Arezzo da una numerosa famiglia di emigranti siciliani. Era sordomuto e per questo i genitori lo mandarono a Siena in un istituto religioso specializzato. Qui, costretto a difendersi, scoprì la sua vocazione pugilistica. Ma i primi passi nell’agonismo furono difficili: la federazione era restia ad accogliere atleti sordomuti, che in molti altri paesi, come gli Stati Uniti, rientravano invece nella norma. Furono i cittadini di Arezzo a presentare una petizione che convinse la Federazione a concedere il permesso.
Nel 1950 D’Agata decise di passare professionista e firmò con Libero Cecchi, che dapprincipio non sospettò certo che quell’ omino alto poco più di un metro e mezzo sarebbe diventato campione del mondo. Era un pugile che ingranava con il passare dei minuti, un po’ grezzo, ma spinto dalla brama di vincere ad ogni costo. E questo rendeva ancora più difficile il compito degli arbitri, che stavano sempre all’erta per la sua menomazione. Dopo alcune vittorie pareggiò con il siciliano D’Augusta, ma perse in due occasioni con l’ottimo Kid Arcelli ( nome d’arte di Romolo Re). Contro Renato Denti venne squalificato, un rischio che correva spesso per la sua irruenza, e contro Ganadu fu costretto all’abbandono per un infortunio. ll 26 novembre 1952 a Milano contro Gaetano Annaloro, pugile di buona quotazione internazionale, erano in pochi a scommettere su di lui. Ebbene, D’Agata capovolse il pronostico perché Annaloro per liberarsi dell’asfissiante aggressività di quell’indemoniato trovò come soluzione la squalifica al settimo round. Fu una sorpresa e “Mariolino” un mese dopo, sempre a Milano, si prese la rivincita su D’Augusta. Ormai era lanciato e l’anno seguente nella sua Arezzo conquistò il titolo nazionale dei gallo battendo per squalifica un pugile del calibro di Gianni Zuddas, grande campione sardo e medaglia d’argento alle Olimpiadi di Londra.
La grande occasione arrivò il 29 giugno 1956. Lo Stadio Flaminio di Roma era gremito in ogni parte. Un titolo mondiale all’epoca per noi era roba da fantascienza. D’Agata aveva di fronte Robert Cohen, un tunisino dal destro pericoloso e con buona tecnica. Un tremendo sinistro al fegato di D’Agata costrinse l’avversario al tappeto. L’arbitro lo contò fino ad 8 prima che suonasse il gong. Nella ripresa successiva Cohen non riprese i match, doveva essere quindi un abbandono, ma l’arbitro spiazzò tutti e decretò la vittoria di D’Agata per ferita. Dopo 23 anni precisi (Carnera lo aveva conquistato il 29 giugno 1933) un italiano riconquistava il titolo mondiale.
D’Agata non riuscì a difendere il titolo l’anno successivo e lasciò la cintura mondiale nelle mani del francese Alphonse Halimi, che la sera del primo aprile 1957, al Palais des Sports di Parigi, si aggiudicò una dura battaglia sulla lunghezza dei 15 round. Il mach alimentò un giallo a causa della sospensione di 8 minuti dovuta ad un blackout elettrico nel corso della quarta ripresa. Senza mai ottenere la rivincita per la corona mondiale, D’Agata si concentrò sugli impegni continentali e fece suo il titolo europeo dei pesi gallo, nel 1957 e poi nel 1960. Si ritirò con un record di 54 vittorie, 23 per ko, 11 sconfitte e 3 pari.
Mario D’Agata morì 4 aprile 2009, stroncato da un male incurabile. Aveva ottantadue anni. Anche le ultime foto sono illuminate da un instancabile sorriso. Quello di un uomo, prima che uno sportivo. Un modello d’eroismo che sembra appartenere a un mondo epico e passato.
Marco Patruno