Chiudete gli occhi e immaginate: alzare la coppa del mondo, con la maglia della propria nazionale, davanti al proprio pubblico. Chi da bambino non ha mai fatto un sogno così? Un sogno, appunto. Si sarebbe disposti a tutto per realizzarlo. A tutto, forse, o quasi. Perché c’è anche chi a quel sogno ha deciso di rinunciare, perché non era giusto e perché non ne valeva la pena.
La storia del gran rifiuto di Jorge Carrascosa è una delle più belle che ci ha consegnato la memoria del pallone del ventesimo secolo eppure è una delle più dimenticate. Troppo grande, troppo incomprensibile in un oceano di indifferenza e di ipocrisia, fu la sua decisione di non giocare il mondiale. Terzino sinistro dell’Argentina degli anni Settanta. Un grande temperamento, che gli aveva fatto guadagnare il soprannome di El Lobo, il Lupo, e i gradi di capitano della nazionale alla vigilia del campionato del mondo del 1978, sul quale Videla e i militari che tenevano il paese sotto una delle dittature più spaventose del Novecento contavano per diffondere all’estero l’immagine di un’Argentina apparentemente felice.
La cosa, almeno fino a un certo punto, funzionò. Un paese intero, provato da una dittatura sanguinaria, per un mese si fermò. Non si fermarono, se non per quelle due ore in cui scendevano in campo Mario Kempes, Bertoni e le altre glorie nazionali, le torture negli scantinati di Buenos Aires, le feroci cacce al nemico orchestrate dalla tripla A, l’Alleanza anticomunista argentina, le persecuzioni degli oppositori. Non si fermarono quei voli della morte che hanno gettato, vive, nell’oceano, migliaia di persone, soprattutto ragazzi della stessa età di quelli con la maglia albiceleste che facevano sognare un popolo. Non si fermarono il pianto e la rabbia delle madri di Plaza de Mayo che chiedevano verità e giustizia per i loro figli desaparecidos, scomparsi nel nulla.
La nazionale argentina era ricca di talenti: oltre a Kempes e a Bertoni c’era un altro grande attaccante come Luque, c’era il bizzarro Ardiles, c’era il monumentale libero Daniel Passarella. Ma non c’era lui, il Lobo, Jorge Carrascosa. Non certo il più talentuoso di quella nidiata dove emetteva i primi vagiti anche Diego Maradona, non convocato però per quel mondiale. Jorge Carrascosa disse di no. Voltò le spalle ai suoi colonnelli, gettò a terra la sua fascia perché non voleva sporcarla di sangue. Non disse una parola, non la dirà mai più. A trent’anni non ancora compiuti lasciò la nazionale, un anno dopo il calcio. Non avrebbe avuto senso alzare una coppa per quella gente, che teneva l’Argentina piegata dal terrore. Sarebbe stata una coppa insanguinata. La storia, anche quella del calcio, la scrivono i vincitori e sarà Daniel Passarella a ricevere la coppa dalle mani di Videla. Passarella che soltanto molto tempo dopo, disse: «se avessi davvero saputo cosa stava accadendo nel mio Paese, anche io non avrei indossato la maglia della Nazionale».
Bella squadra, quell’Argentina. Ma per farla vincere fecero davvero di tutto. Come quella che è passata alla storia come la ‘Marmelada Peruana’, la vittoria per 6-0 sul Perù che le ha consentito di accedere alla finale (serviva infatti una vittoria con molti gol di scarto per superare il Brasile nella differenza reti). Il Perù schierò in porta Ramon Quiroga, argentino appena naturalizzato peruviano, che incassò sei gol da comiche e anni dopo ammise la combine. Prima di quella partita lo spogliatoio peruviano ricevette una visita di Videla con il Segretario di Stato americano Henry Kissinger. Il governo argentino aveva appena regalato un milione di tonnellate di grano al Perù, e venne aperta una linea di credito di 50 milioni di dollari. E sulla corruzione della squadra peruviana ci fu anche un coinvolgimento, mai chiarito, del narcotraffico colombiano.
La finale contro l’Olanda del calcio totale, arbitrata non senza polemiche dall’italiano Guido Gonella, vide l’Argentina vincere 3-1 dopo i supplementari. Si racconta che Menotti, l’allenatore, chiese ai suoi di non guardare i militari, ma la gente in estasi assiepata sugli spalti: ”non vinciamo per quei figli di puttana, vinciamo per alleviare il dolore del popolo”. In quei 120 minuti una nazione si fermò.
Accanto al Monumental di Buenos Aires dove si giocava la gara del secolo c’è la Escuela de Mecanica de la Armada, uno dei luoghi di detenzione più sanguinario, e in quei 120 minuti si fermarono anche le torture. Lì, come nel Garage Olimpo. Là dentro, in mezzo ad un paese in delirio, c’erano migliaia di prigionieri che si stavano facendo lentamente ammazzare. Avrebbero voluto essere là fuori, ad ubriacarsi e far festa con gli amici per il primo titolo mondiale dell’Argentina. Ma non avevano vinto loro, avevano vinto quelli che li stavano ammazzando. El Lobo Jorge Carrascosa dette un calcio ai suoi sogni di bambino e non volle essere uno di quelli.
Marco Patruno