Nell’ottobre 1982 l’Unione Sovietica, così come il proprio vetusto e malandato leader Leonid Breznev, si trovava in condizioni di salute estremamente precarie. L’embargo americano, attuato per ritorsione all’invasione dell’Afghanistan del 1980, il ritardo accumulato nella corsa alla tecnologia, la corruzione ormai endemica e la crisi del modello socialista agli occhi dell’opinione pubblica mondiale stavano portando l’Unione Sovietica a chiudersi sempre più in se stessa
L’impero sovietico volge ormai al tramonto, ma la gerontocrazia abbarbicata al potere non ne è ancora cosciente, e dalla fortezza del Cremlino sembra guardare compiaciuta a un mondo immaginario. Addirittura la salute del segretario del PCUS, Breznev, è coperta da una coltre di omertà.
In quel periodo non sono assolutamente accettati episodi che potrebbero, in qualunque maniera, gettare cattiva luce sull’Unione Sovietica o trasmettere segnali di debolezza, e la cosiddetta disinformacija è utilizzata a piene mani non solo per nascondere il male incurabile di Breznev, ma in generale per occultare le reali condizioni del paese.
Il 20 ottobre 1982, allo Stadio Centrale Lenin, che due anni prima aveva ospitato le olimpiadi, si gioca una partita valida per l’andata dei sedicesimi di finale della Coppa Uefa. Si trovano di fronte i padroni di casa dello Spartak Mosca e gli olandesi dell’HFC Haarlem.
Lo Spartak, il cui nome trae origine da Spartaco, il leader ante litteram della rivolta degli schiavi nell’antica Roma, è la squadra del popolo per eccellenza, contrapposta ai militari della CSKA, ai poliziotti della Dinamo e ai ferrovieri della Lokomotiv. Le sue partite attirano grandi folle fin dagli anni ruggenti dei fratelli Starostin, e anche quella sera, nonostante i dieci gradi sotto zero del freddo autunno moscovita, sono presenti comunque oltre 15mila tifosi ad assistere alla partita.
Gli spettatori vengono concentrati unicamente sulla Tribuna Est, anche perchè buona parte delle gradinate dell’impianto, che ha una capienza massima di 80mila persone, è ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio. Un gol di Edgar Gess, discreta mezzapunta della squadra di casa, è uno dei pochissimi lampi in una partita indubbiamente condizionata dalle condizioni atmosferiche proibitive.
Quando mancano ormai pochi minuti al termine di un match trascorso senza troppi sussulti, una buona parte dei tifosi inizia a defluire dalle tribune, prestando attenzione alle rampe e agli scalini ghiacciati. E proprio durante quelle battute finali, il difensore Sergei Shvetsov realizza il definitivo 2-0. Gli spettatori fuoriusciti in precedenza tentano di rientrare in tribuna, avendo sentito il boato di quelli rimasti sugli spalti: ma la polizia fa muro, bloccando i tifosi che cercano di rientrare all’interno dell’impianto e comprimendoli probabilmente nell’unico tunnel di uscita lasciato aperto. Nessun rapporto ufficiale attendibile ha fatto mai chiarezza sulla dinamica dei fatti.
La calca che si genera fa sì che molte persone rimangano schiacciate, mentre alcune tra le poche riuscite a tornare sugli spalti sono vittime del fondo ghiacciato. Attoniti, alcuni spettatori sulle tribune sentono grida strazianti, vedono la folla in preda al panico, finché dopo qualche interminabile minuto, le prime ambulanze cominciano a convergere verso lo stadio
Le squadre, una volta rientrate negli spogliatoi, non possono immaginare la gravità della situazione. I giocatori dell’Haarlem sono costretti dalla milizia a lasciare immediatamente l’impianto, senza nessuna spiegazione. Stessa situazione per quelli dello Spartak, che non vengono informati di nulla.
Alcuni poliziotti, unitamente ai funzionari dello stadio, si prodigano per salvare più persone possibile. Ma la maggior parte di loro, in mancanza di ordini, resta incredibilmente inerte. Il giorno dopo, il quotidiano “Il Vespro di Mosca”, riporta in modo molto generico di “qualche incidente che ha comportato lesioni ad alcuni tifosi”, guardandosi bene dall’entrare nei dettagli. Gradualmente, l’inchiesta sul disastro ordinata da Jurii Andropov, una volta diventato segretario del PCUS succedendo a Breznev, ammette che in quella tragica serata rimasero uccise 67 persone.
In realtà, fonti non ufficiali parlano di almeno 300 spettatori che persero la vita in quella calca infernale. Ma le autorità sovietiche hanno insabbiato per anni i reali numeri della vicenda. Ancora oggi gli storici faticano a ricostruire le effettive proporzioni della strage.
Andrej Chesnokov, ex tennista sovietico e testimone oculare di quella sera, afferma di aver contato tanti cadaveri da poterci riempire due campi da tennis. Come troppo spesso accade, i processi ufficiali cercano di individuare un capro espiatorio: nel caso specifico, è un certo Panchickhin, il custode dell’impianto, ad essere ritenuto a torto il principale responsabile della tragedia. Verrà condannato a 18 mesi di lavori forzati.
Per anni, sui quotidiani sovietici si faranno solo vaghe allusioni al disastro del Luzhniki (l’attuale nome dello stadio Lenin), con qualche frammento di verità che inizierà ad emergere soltanto dopo il crollo dell’URSS. E solamente nel 1990 si permette la costruzione di un monumento commemorativo all’esterno dell’impianto. Ma ancora oggi nessun responsabile di alto livello ha chiesto scusa per questa tragedia.
Il 20 ottobre 2007, venticinque anni dopo il sanguinoso massacro, gli ex giocatori delle squadre coinvolte si sono ritrovati al Luzhniki per una partita amichevole, ma soprattutto per commemorare tutte le vittime (non si sa ancora il loro numero esatto) di uno dei tanti fatti drammatici, riemersi dagli abissi della censura solo dopo il crollo del regime sovietico.
Marco Patruno