Se riuscirete a vincere il fastidio per la supponente e sgrammaticata prefazione del sedicente economista Antonio Maria Rinaldi e andrete avanti nella lettura, troverete piuttosto interessante “Viva l’Italia. Perché non siamo il malato d’Europa”, che il giornalista Francesco Bonazzi ha appena pubblicato con Chiarelettere. Un po’ perché è comunque bene conoscere le idee di chi non la pensa esattamente come noi – Bonazzi non ha una grande simpatia per l’Europa – e molto perché alcune di queste idee meritano più attenzione di quanta ne ottengono di solito nel quotidiano chiacchericcio di giornali e televisioni.
Ma andiamo con ordine. La tesi di fondo del libro è che se si prendono in considerazione alcuni indicatori economici fondamentali l’Italia sta molto meglio di quello che di solito si dice e si scrive. Tanto è vero che nonostante tutti i suoi problemi resta stabilmente nel gruppo ristretto delle grandi potenze industriali del mondo.
E’ vero che abbiamo il debito pubblico più alto d’Europa – dice Bonazzi – ma per quanto riguarda il debito aggregato, e cioè quello che somma ai debiti dello stato quelli delle imprese e delle famiglie, rientriamo nella media europea, e risultiamo più virtuosi della vicina Francia. Quanto alle famiglie, complessivamente sopportano un debito pari al 62% del reddito disponibile contro una media europea che supera il 90%, hanno una fortissima propensione al risparmio, e in otto casi su dieci dispongono di una casa di proprietà.
Il patrimonio immobiliare italiano vale da solo 6227 miliardi di euro, e cioè supera di 2,7 volte il debito pubblico. Inoltre, mettendo insieme tutte le attività finanziarie dei residenti, dallo stato alle imprese alle famiglie, si arriva all’ astronomico valore di 16.200 miliardi stimato da Bankitalia nel 2017, che fa dell’Italia uno dei paesi più ricchi del mondo.
Questi e tantissimi altri numeri, tutti provenienti da fonti ufficiali, portano Bonazzi a sostenere che lo spauracchio del debito, con il suo corollario delle spread, viene utilizzato per alimentare la paura all’unico scopo di delegare all’estero le scelte fondamentali del paese, che viene ritenuto incapace di autoregolamentarsi anche da una parte consistente del suo ceto politico.
Citando l’economista francese Thomas Piketty, Bonazzi dice che “la questione del debito pubblico è una questione di distribuzione della ricchezza, in particolare tra attori pubblici e attori privati, e non una questione di livello assoluto della ricchezza. Il mondo ricco è ricco: sono i suoi Stati ad essere poveri”. Per questo, secondo lui, concentrare gli sforzi sul contenimento del debito non è soltanto una cessione di sovranità, ma anche un errore teorico. Occorrerebbe invece puntare su misure in grado di ridurre le disuguaglianze e di fermare la perdita dei diritti che sta portando a una “cinesizzazione” del mondo del lavoro e della società nel suo complesso, mentre anno dopo anno si approfondiscono le distanze tra il Nord sempre più ricco e il Sud sempre più povero. Il tutto – conclude Bonazzi – senza autoassolversi per colpe che non dipendono certo dall’Europa, come la corruzione, l’evasione fiscale, i trasporti che non funzionano, gli scempi edilizi.
Come spesso accade in questo tipo di inchieste, la parte della denuncia prevale su quella propositiva, che è troppo generica per essere davvero convincente. Al lettore restano molti dubbi, molte curiosità senza risposta, e anche un vago senso di inquietudine per le certezze maturate nel corso degli anni, che il libro di Bonazzi ha il merito di avere reso un po’ meno solide. Per questo, tutto sommato, vale la pena leggerlo.
Battista Gardoncini