Ci teniamo, alla nostra identità. Siamo abituati ad averla. Ci caratterizza. Così “nitida limpida elegante e pulita” ci aiuta a dare un ordine alla complessità dell’esistenza. Ma è anche “avvelenata”, perché quando viene usata in modo sconsiderato crea barriere e ci allontana dagli altri, che diventano estranei e a volte nemici.
Francesco Remotti, uno dei più grandi antropologi italiani, ne ha scritto in un libro denso e illuminante, intitolato “Somiglianze, una via per la convivenza”, pubblicato da Laterza. E ha proposto di contrapporre al concetto di identità quello più significativo della somiglianza nelle differenze, riassunto nell’acronimo “sodif”, che potrebbe aiutarci a sentirci parte di un unico mondo, di una rete di relazioni che tutti ci lega, ci contamina e ci arricchisce.
Remotti parte da lontano, dall’assolutismo di Platone e dal relativismo del suo antagonista Protagora, ridiscutendo le tappe del pensiero filosofico occidentale che hanno portato alla prevalenza dei concetti identitari su quelli fondati sulla somiglianza. E sostiene che un’altra strada sarebbe stata possibile, come dimostrano le forme di organizzazione sociale sopravvissute in alcune società primitive, e che ancora lo è, nonostante la pericolosa deriva di un’epoca che sembra nutrirsi di rifiuti, contrapposizioni e addirittura scontri di civiltà.
Destra e sinistra condividono oggi la passione per l’identità. Gli accenti sono diversi: gli uni non si vergognano di parlare di diversità biologiche e razziali, chiudono i confini e costruiscono muri, gli altri si limitano a sottolineare le differenze culturali e invocano il dialogo e la tolleranza, ma la sostanza non cambia, perché alla radice c’é sempre una arbitraria distinzione tra il “noi” e gli “altri”.
“Le parole possono essere belle – spiega Remotti in polemica con chi a sinistra parla di contaminazione ma la ritiene impossibile senza la difesa di una identità forte – I concetti però hanno una loro cogenza, e l’esperienza deve insegnare qualcosa. Siamo davvero per un dialogo aperto e trasformativo? Siamo davvero per una logica meticcia dell’incontro con gli altri? Se è così dobbiamo essere disposti a vederci trasformati dal dialogo stesso, non necessariamente in quello che sono gli altri, ma in qualcosa di inedito, di diverso sia da quello che eravamo noi, sia di quello che erano gli altri prima del dialogo.Se siamo per la trasformazione, dobbiamo essere disposti a rinunciare non solo e non tanto alla nostra identità, ma alla idea stessa di identità”.
Arrivarci mentre le cronache ci parlano di porti chiusi, aggressioni di stampo razzista e rigurgiti nostalgici, sembra davvero difficile. E tuttavia prima o poi, di fronte ai rapidi mutamenti di un mondo in movimento, appare necessario.
Battista Gardoncini