Non credo che l’elezione di Enrico Letta alla segreteria abbia risolto i tanti problemi del PD. Intendiamoci. Letta è una buona scelta, soprattutto se lo paragoniamo agli altri nomi che erano emersi dopo le traumatiche dimissioni di Zingaretti. Ma era un’ottima persona anche Zingaretti, e questo non ha impedito che le rissose correnti del partito lo impallinassero senza pensarci due volte. E se è vero che Letta ha ottenuto una percentuale bulgara nell’assemblea (860 sì, 2 no e 4 astenuti), il risultato di Zingaretti nel 2019 fu anche più significativo, perché ottenuto con il 66% dei consensi in elezioni primarie aperte a tutti.
Non è affatto scontato che Letta sia in grado di evitare la fine del suo predecessore. Il PD non è cambiato: le correnti sono sempre lì, con i loro capi e i loro capetti, che hanno firmato una tregua evitando di contarsi in assemblea, ma non sembrano intenzionati a rinunciare alle loro battaglie di posizionamento. Per rendersene conto, basta confrontare le diverse letture che sono state date del discorso del neo-segretario.
Per alcuni Letta ha riconfermato le linee guida del segretario uscente. Per altri se ne è distaccato. Per alcuni ha offerto un sostegno incondizionato al governo Draghi, per altri ha posto dei paletti alla sua azione facendo esplicito riferimento a una legge sullo ius soli indigesta a una parte consistente della maggioranza. Per alcuni ha teso una mano a Conte che si appresta a guidare i Cinque Stelle, per altri ha fatto capire di non pensare a una alleanza organica con lui. Per alcuni, memore di quell” Enrico stai sereno” che nel 2014 portò alla caduta del suo governo, chiuderà con decisione le porte a un ritorno di Renzi all’ovile. Per altri proprio quel ritorno sarebbe parte del patto che lo ha portato alla segreteria.
Prima o poi Letta dovrà sciogliere i nodi, perché il collante del potere non sembra più in grado di nascondere le troppe contraddizioni di un partito senza anima e senza strategia, in caduta libera nei sondaggi. Oggi il PD rischia di pagare molto caro un vizio di origine che risale ai tempi dell’ineffabile Veltroni, e cioè la pretesa di essere autosufficiente in quanto unica rappresentanza possibile per gli elettori del centro-sinistra. Peccato che quegli stessi elettori non la condividano, perché la dura realtà inchioda da anni il partito a percentuali attorno al 20% mentre altre forze, con i loro pregi e i loro difetti, sono comparse sulla scena politica e non sembrano destinate a sparire.
La situazione dovrebbe consigliare alla cautela i dirigenti del PD e invitarli a guardare con meno spocchia a quello che si muove nel centro-sinistra, ma sembra curiosamente assente dal dibattito interno al partito. Zingaretti se ne era reso conto prima di altri, e non a caso uno dei suoi ultimi atti come segretario è stata la creazione di un intergruppo parlamentare con i Cinque Stelle e Leu, mentre come presidente della Regione Lazio ha favorito l’ingresso in giunta dei Cinque Stelle. Scalzato dalla segreteria, resta comunque in campo per difendere la sue scelte.
Vedremo nei prossimi giorni che cosa accadrà, ma Letta è un politico troppo accorto per non rendersi conto di non avere molto tempo a disposizione. Draghi, fortemente voluto dai poteri forti interessati a mettere le mani sui fondi europei, è solido soltanto in apparenza. Nonostante le lodi sperticate dei giornali – espressione di quegli stessi poteri – la sua gestione dell’emergenza è indistinguibile da quella del predecessore Conte. E le debolezze della maggioranza verranno prima o poi alla luce. Se ne riparlerà in autunno, quando si voterà per il rinnovo delle amministrazioni comunali nelle grandi città. E l’anno prossimo, quando questo parlamento dovrà eleggere il nuovo presidente della repubblica.
Battista Gardoncini