Il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, fissato per il 29 marzo, potrebbe essere rinviato per l’emergenza coronavirus. Il governo deciderà nelle prossime ore, cercando di mettere d’accordo la maggioranza, l’opposizione e il comitato referendario. In ogni caso non si può dire che l’attesa sia spasmodica, anche perché l’esito è scontato. Stando ai sondaggi, oltre l’ottanta per cento degli elettori è d’accordo con la legge, che è passata alla camera con 553 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, e al senato con 185 voti favorevoli, 54 contrari e 4 astensioni. In entrambi in casi una maggioranza qualificata, tale da rendere non necessario un referendum confermativo, che invece si farà perché 71 senatori si sono avvalsi della facoltà di richiederlo prevista dalla legge. I numeri non sono un’opinione, e dimostrano che tra questi 71 ce ne sono 13 che in aula avevano votato a favore della legge. Fatti loro e anche un po’ nostri, viste le centinaia di milioni che costa l’allestimento della macchina elettorale. Colpisce però che agendo in questo modo non si siano resi conto di avere delegittimato proprio quel parlamento che a parole dicevano di voler difendere, e anche di aver dato l’impressione di essere disposti a tutto pur di conservare posti e privilegi.
Non mi sembra il caso di ripetere qui i cavillosi ragionamenti di alcuni di questi ondivaghi senatori in difesa del loro singolare comportamento. Non meritano tanta attenzione. Ma in queste ore si stanno moltiplicando le prese di posizione di associazioni gruppi e partitini – quasi tutti espressione del variegato arcipelago della sinistra – che invitano a votare no al referendum perché il taglio dei parlamentari metterebbe in forse il principio della rappresentanza e darebbe un colpo mortale alla nostra democrazia. Perfino l’ANPI ha detto la sua, mentre alcuni stimati intellettuali sono scesi in campo invitando alla mobilitazione le masse popolari, e dimostrando una volta di più che tra le loro opinioni e il comune sentire del paese c’è un abisso incolmabile. E’ difficile immaginare, infatti, che gli italiani, a torto o a ragione convinti che in parlamento siedano troppi incompetenti buffoni, possano bocciare una legge che promette di ridurne il numero.
Io sono tra quelli che voteranno sì. Sarò antidemocratico, populista, insensibile e pressappochista, ma la riduzione del numero dei parlamentari non mi turba. Passare da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori significa semplicemente che un deputato rappresenterà circa 150 mila cittadini anziché 100 mila, mentre un senatore ne rappresenterà circa 300 mila anziché 190 mila. E che sarà mai?
Penso invece che una sinistra degna di questo nome, anziché battersi per l’ennesima causa persa, dovrebbe concentrare la sua attenzione sulle conseguenze della nuova legge, che tra l’altro imporrà di ridisegnare i collegi elettorali: una questione soltanto apparentemente tecnica, che in passato ha consentito molte manipolazioni di parte. La nuova legge dovrebbe anche dare una spinta decisiva alla modifica in senso compiutamente proporzionale della legge elettorale, e mettere fine alla elezione dei senatori su basi regionale, una anomalia che nel corso degli anni ha minato la stabilità di tutti i governi. Inoltre potrebbe favorire altre riforme di un certo peso, come l’estensione del diritto di voto per il senato anche ai diciottenni, e la modifica della costituzione nella parte che riguarda la platea per l’elezione del presidente della repubblica, che oggi comprende tre delegati per ogni regione, senza distinguere tra quelle grandi e quelle piccole.
Su tutto questo, curiosamente, la sinistra preferisce tacere. O meglio preferisce strillare in difesa della democrazia “messa in pericolo da un referendum che aumenterebbe i costi delle campagne elettorali e lo strapotere delle segreterie di partito” facendo finta di dimenticare che questi sono mali antichi, frutti avvelenati di scelte politiche condivise a suo tempo da tutti i partiti dell’arco costituzionale, senza eccezioni.
Battista Gardoncini