Al mio amico e collega Claudio Mercandino non piace la riduzione del numero dei parlamentari, e quindi voterà no nel prossimo referendum. Ecco i suoi argomenti in risposta a un articolo comparso nei giorni scorsi su Oltre il ponte.
I commenti di alcuni amici a una parabola semiseria pubblicata su Facebook a proposito del referendum sul taglio dei parlamentari mi inducono ad articolare una risposta meno scherzosa e più argomentata sul perché la riduzione delle assemblee legislative non mi convince.
Un primo argomento me lo offre proprio Battista Gardoncini nel motivare il proprio sì: «La rappresentanza – scrive sulla sua testata on line Oltre il ponte – non è una questione di numeri, ma di sostanza, perché dipende dalla qualità degli eletti e dalla consapevolezza degli elettori». Sottoscrivo anche le virgole, come si dice, ma si tratta di un ragionamento bivalente, che potrebbe essere addotto anche da chi volesse aumentare il numero dei parlamentari: che cosa importa, infatti, il numero degli eletti, se ho la garanzia che siano tutti saggi, preparati, virtuosi, gran lavoratori e scelti mediante processi di alto contenuto democratico? E come può, tale numero, determinare di per sé la qualità della rappresentanza? Un popolo corrotto eleggerà sempre una certa quantità di corrotti, indipendentemente dal loro numero; e, se taglio la quantità dei rappresentanti, sforbicio automaticamente in proporzione anche il numero degli onesti.
Naturalmente, come sostiene Gustavo Zagrebelsky in un articolo citato da Fabrizio Zanelli , anche i numeri, in questo caso, hanno un limite: non devono essere troppo piccoli da impedire una accettabile produttività legislativa, non devono essere troppo grandi da trasformare l’assemblea in un carrozzone pachidermico e largamente parassitario. Ma, aggiunge il costituzionalista, «il rapporto di rappresentanza è flessibile, non esiste un rapporto “giusto”. Può variare a seconda dell’impegno dell’eletto, degli strumenti di comunicazione che gli si mettono a disposizione e, dall’altra parte, dalla capacità degli elettori, singoli e organizzati attraverso associazioni, partiti, sindacati, di far sentire la propria voce».
Per dimostrare che si può legiferare proficuamente anche con meno parlamentari, Zagrebelsky parla anche dei primi Parlamenti, meno numerosi prima che la riforma del 1963 ne fissasse l’attuale composizione; va considerato però che quella riforma fu fatta non per aumentare il numero di deputati e senatori, ma per stabilizzarlo e, in prospettiva, limitarlo: con la norma precedente, che stabiliva un rapporto di un deputato ogni 80 mila abitanti e di un senatore ogni 200 mila, il numero degli eletti era destinato a crescere; oggi, per fare un esempio, avremmo circa 750 deputati.
I numeri, insomma, sono un problema relativo; e dunque, domandano i fautori del sì, perché non tagliarli? È vero, i numeri sono un problema relativo: e allora perché tagliarli? Quale sarebbe, cioè, il beneficio concreto che il nostro sistema democratico ne trarrebbe? Il taglio farebbe risparmiare spese per gli stipendi dei nostri rappresentanti? È stato calcolato che il risparmio equivarrà a un caffè all’anno per ciascun cittadino italiano. Migliorerebbe l’efficienza del Parlamento? Produrrebbe una migliore corrispondenza tra eletti ed elettori? Eleverebbe il livello qualitativo del dibattito politico? Aumenterebbe la produttività di onorevoli e senatori? Ne svilupperebbe il senso di responsabilità nei confronti dell’elettorato? Dai “riduzionisti” non è arrivata nessuna risposta a queste domande, ammesso che se le siano poste.
Perché sono un problema relativo, i numeri, ma non sono neutri. Innanzitutto perché qualunque riforma degna di questo nome, per usare le parole di Battista, «dovrebbe concentrare la sua attenzione sulle conseguenze della nuova legge», ed è esattamente ciò che questo taglio lineare della rappresentanza non fa; nello stesso articolo Gardoncini elenca le cose che la riduzione lascerebbe inalterate, trasformandole in disequilibri e problemi da risolvere urgentemente: una volta calata la scure bisognerà infatti «ridisegnare i collegi elettorali», modificare la legge elettorale «in senso compiutamente proporzionale», «mettere fine alla elezione dei senatori su base regionale», estendere eventualmente il diritto di voto per il Senato anche ai diciottenni, modificare la Costituzione «nella parte che riguarda la platea per l’elezione del presidente della repubblica, che oggi comprende tre delegati per ogni regione, senza distinguere tra quelle grandi e quelle piccole». Se lo scenario è questo, se l’orizzonte della riforma è così definito, che cosa vietava di porre mano armonicamente e simultaneamente a tutte queste rilevantissime modifiche? Che cosa ha imposto di intervenire solo sul numero dei parlamentari, rinviando tutte le consequenziali e importanti riforme al voto di un Parlamento che la vox populi imperante (quella cui ci si dovrebbe inchinare a prescindere, visto l’«esito scontato» del referendum) bolla come un’accolita di inetti e parassiti?
I numeri non sono neutri, ma possono avere un segno. Possono essere funzionali a una prospettiva, a un disegno. Se da una dittatura senza elezioni si passa a un Parlamento di 200 eletti, il progresso è innegabile; se i 200 eletti risultano dal dimezzamento dell’assemblea si può cominciare a dubitarne. Nel nostro caso il taglio degli eletti è uno dei punti programmatici del “movimento del vaffanculo”, è coerente con il principio anticostituzionale del vincolo di mandato (in virtù del quale il Parlamento non conta nulla e dove gli eletti non fanno altro che ratificare indicazioni esterne provenienti nel migliore dei casi da un partito, quando non da una piattaforma o da un’azienda), risponde agli scenari distopici della Casaleggio srl nei quali si può decidere il destino di una nazione con un clic dal salotto di casa e i parlamentari possono persino essere sorteggiati. È da lì, è anche da lì, che nasce questa idea di riduzione dei parlamentari; ed è per questo che questi numeri – 400 e 200 – non possono essere neutri.
Ma poi basta accantonare per un momento i ragionamenti teorici, le elucubrazioni giuridico-istituzionali, e provare ad ascoltare e leggere le argomentazioni della “gente”, nei bar, sui mezzi pubblici, sui social network, per capire che non c’è alcuna neutralità nel numero presente e futuro dei parlamentari. Dietro il “sì” rivendicato spesso con rancore, ostentazione, sguaiatezza si nascondono la rabbia (pure comprensibile) per una classe politica scadente, la paura per un futuro incerto, la convinzione che “tanto sono tutti uguali”, l’adesione al modello narrativo destrorso e qualunquista secondo cui “la politica è cosa sporca” e “le istituzioni sono una mangiatoia”, lo spirito di rivalsa che si traduce in un voto di pancia, inteso come un dispetto tra tifosi e non come un impegno civico. In fondo a tutto, poi, la conseguente nerissima persuasione che lo stesso Parlamento sia inutile, se non addirittura dannoso, e comunque prescindibile.
Se mi concentro sul dopo, come invita a fare Battista, non sono affatto sicuro che da questo referendum esca un paese migliore, né nella società civile né nelle istituzioni. E credo sia un errore considerare inutili gli argomenti di chi si appresta a «battersi per l’ennesima causa persa» in presenza di un orientamento già nettamente determinato. Intanto perché questa stessa logica, portata alle sue estreme conseguenze, ci condurrebbe a sostituire il voto con i sondaggi. In secondo luogo perché una democrazia funzionante necessita anche (e io direi soprattutto) delle idee (e non degli slogan) di una minoranza. Infine perché le nostre convinzioni non devono essere determinate dal numero di persone che le condividono (la disfunzione cognitiva nota come “bias del carro della banda musicale”, per cui più soggetti aderiscono un’idea più siamo indotti a farla nostra) e dunque, se crediamo nelle nostre ragioni, abbiamo il diritto-dovere di sostenerle anche se siamo pochi. Come dice un vecchio adagio piemontese, nen esse scotà a l’è nen ’na bon-a rason për sté ciuto, non essere ascoltati non è una buona ragione per tacere.
Claudio Mercandino