Sul Jobs Act incombe l’incognita del referendum, e poiché tra i suoi obiettivi dichiarati c’erano il rilancio dell’occupazione e la riduzione del precariato è facile prevedere che nei prossimi mesi i numeri del mercato del lavoro saranno al centro del dibattito. Quelli usciti finora, anche da fonti non sospette come l’Inps e l’Istat, lasciano perplessi, ed è difficile perfino mettersi d’accordo sulla terminologia.
Che cosa si intende esattamente per precariato? Che differenza c’e’ tra il precariato e la flessibilità? Quando si cessa di essere precari? Quando e perché lo si diventa? Le risposte possibili sono molte, e diverse. Una cosa, però, è certa. Quelli che vivono una condizione di precariato sanno bene di che cosa si tratta, anche se hanno poche occasioni di raccontarlo perché i giornali e le le televisioni preferiscono occuparsi di altri argomenti. A loro ha cercato di dare voce Radio Precaria, una iniziativa dell’Istituto Gramsci di Torino con la Rete Italiana di Cultura Popolare, con due puntate di un’ora l’una, riascoltabili in podcast all’indirizzo www.tradiradio.org, dedicate agli “esclusi”, agli “inventori”.
Perché “esclusi”? Perché non soltanto è diventato difficile trovare un lavoro stabile e sicuro, ma stanno venendo meno le certezze anche per chi quel lavoro stabile ce l’ha, ma è esposto ai venti della globalizzazione, della crisi economica e delle ristrutturazioni aziendali.
Claudio, operaio della Agrati di Collegno, si è visto chiudere da un giorno all’altro lo stabilimento, che non aveva mai fatto un’ora di cassa integrazione, perché i proprietari hanno deciso che era più conveniente produrre viti e bulloni in Francia. “Eravamo ottantadue. Quando è arrivata la notizia ho visto molti dei miei compagni piangere. Ero nelle RSU. Ci siamo battuti, abbiamo avuto la solidarietà delle istituzioni, ma non è cambiato niente. Sono in mobilità da due anni. Adesso collaboro come volontario con il sindacato. Gli altri si arrangiano, alcuni fanno lavoretti qua e là. Non abbiamo speranze”.
Giorgio, fotografo professionista, è stato travolto dalla rivoluzione digitale. “In parte è stata colpa mia perché non ho saputo adattarmi, ma il mio mondo non c’é più. La qualità non paga. Le grandi agenzie pubblicitarie per le quali lavoravo pescano dal web, ci sono tantissimi fotografi improvvisati che inflazionano il mercato. Ho preferito chiudere lo studio, e adesso vivo degli affitti di una casa in montagna. Per certi versi è stato salutare, perché si impara a fare a meno del superfluo”.
Per ristrutturazione aziendale è stata licenziata Alberta, che lavorava in una multinazionale del farmaco. “Centocinquanta fuori in un colpo solo, perché la farmaceutica, nonostante quello che raccontano i giornali, è in crisi. Sapevo che sarebbe successo, ma sono stati corretti, abbiamo avuto una buonuscita che non ci ha lasciato in mezzo alla strada, e in pochi mesi ho trovato un altro lavoro nello stesso settore. Certo sono stata avvantaggiata dal fatto di essere giovane e di avere una buona professionalità”.
Poche prospettive vede invece Marilaura, titolare con una collega di una libreria per ragazzi. “Reggiamo grazie ai nostri risparmi in pratica paghiamo per lavorare, per passione. Si legge di meno, e la concorrenza di giganti come Amazon è spietata. Mi è difficile capire chi preferisce comperare un libro on line invece di sfogliarlo in libreria annusandone la carta. Per fortuna sono vicina alla pensione”.
Fulvio ha appena pubblicato i risultati di una indagine vasta epidemiologica sugli effetti di precariato e disoccupazione sulla salute mentale e fisica. “I dati parlano chiaro. Esiste una correlazione tra disoccupazione, precariato e salute mentale, soprattutto per quanto riguarda lo stress. Dopo la crisi del 2008 è aumentato il numero delle persone coinvolte. Parlo con cognizione di causa, visto che sono un precario della ricerca. Ed è precaria la maggior parte dei ricercatori che hanno collaborato allo studio”.
Il precariato, però, ha molte facce, e alcune sono positive. Nella trasmissione dedicata agli “inventori” hanno parlato persone che di fronte alle difficoltà del mercato del lavoro non si sono arrese e hanno cercato strade nuove, sfidando l’incertezza pur di seguire la propria vocazione. Stefano, ad esempio, ha abbandonato un lavoro sicuro come revisore dei conti per dedicarsi alla fotografia. A differenza del suo collega Giorgio è ottimista. “Non guadagno molto, ma faccio quello che mi piace. Prima ero sempre insoddisfatto. Adesso mi sento realizzato. Alla pensione proprio non ci penso. Tanto sono sicuro che nessuno di noi l’avrà”.
Caterina, dopo una brillante carriera scolastica e una laurea in antropologia, ha scelto il lavoro manuale. “Faccio il falegname. Ho imparato frequentando un laboratorio artigiano, ho lavorato a contratto, adesso sono stata assunta a tempo indeterminato. Mi piace. Quando costruisco una scenografia mi sento realizzata. Non penso che un lavoro di ricerca nel mio campo di studi mi avrebbe dato le stesse soddisfazioni”.
Anche Chiara ha avuto una formazione universitaria. Ma a un certo punto della sua vita ha incontrato il teatro e adesso lavora con una compagnia teatrale. “Faccio di tutto, dalla promozione alla organizzazione degli spettacoli all’amministrazione. Siamo piccoli, e il settore della cultura non sta attraversando un buon momento. Però siamo inseriti in alcuni circuiti internazionali, e tutto sommato ce la caviamo. Non sono pentita della mia scelta”.
Contento è anche Paolo. Era un ingegnere precario. Studiava il suono, ma alla fine ha avuto la meglio la passione per la musica che lo accompagna fin dall’infanzia. Adesso ha un contratto come organista in una chiesa torinese, e guarda con qualche distacco ai suoi colleghi che continuano ad arrabattarsi nel mondo della ricerca.
Silvia, invece, è una precaria dell’università che non si rassegna alla prospettiva di una incertezza perenne. “Divisi si perde. Per questo è nato un coordinamento nazionale dei precari. Per questo ci battiamo per chiedere il riconoscimento dei nostri diritti di lavoratori, e del nostro ruolo. Oggi gran parte della ricerca italiana è fatta da precari. Nel mio campo, la ricerca medica, penalizzare me significa penalizzare anche chi conta su di me, come i miei pazienti”.
Tutti, “esclusi” e “inventori”, sono però concordi su un punto. La loro situazione sarebbe migliore se il lavoro precario fosse riconosciuto come una possibile alternativa al posto fisso, e se nell’ordinamento fossero previste adeguati livelli retributivi e assistenziali. Oggi il precariato avvantaggia soltanto i datori di lavoro, che riducono i costi e non hanno obblighi nei confronti dei dipendenti non contrattualizzati. Nella totale assenza di controlli perfino una misura pensata per fare emergere il lavoro nero, come i voucher, è diventata una forma di sfruttamento del più debole. Occorrerebbe la volontà politica di intervenire, che per il momento non si vede. Anzi, si sta facendo di tutto per alimentare la contrapposizione tra chi ancora conserva qualche diritto e chi invece non ne ha, e probabilmente mai ne avrà. “Dalla guerra tra i poveri – dicono – usciremo tutti sconfitti”.