L’internet delle cose

Il nome ha il suo fascino, inutile negarlo. L’internet delle cose ti fa pensare contemporaneamente alla rete, con la sua rarefatta tecnologia che apre prospettive nuove  e per molti ancora sorprendenti, e alla concretezza del materiale, degli oggetti che ci circondano e fanno parte della nostra vita quotidiana. Il risultato di questa commistione può portare a ovvi vantaggi e a meno ovvi pericoli.

L’internet delle cose viene di solito indicato dall’acronimo IOT, le iniziali inglesi di Internet of Things. Stando a Wikipedia sembra che sia stato coniato nel 1999 da Kevin Ashton, un ingegnere inglese attivo nel campo dell’automazione, e che sia stato in seguito ripreso e rilanciato dalla Gartner, una multinazionale che si occupa di consulenza strategica e ricerca nel campo della tecnologia dell’informazione. In parole povere una azienda che agisce esclusivamente in una logica di profitto, per sé e per i suoi clienti. E questo è un un particolare che è bene sottolineare.

In che cosa consiste, essenzialmente, l’internet delle cose? Nell’accoppiare a oggetti, luoghi o persone piccoli dispositivi elettronici che consentano  il controllo a distanza scambiando i dati attraverso i cloud creati nella rete. Ci siamo già dentro con i telefonini tuttofare, che parlano, trovano i ristoranti per noi, e alla fine della giornata dicono quanto abbiamo camminato e quante calorie abbiamo smaltito. Con le telecamere di sicurezza, con i contatori del gas o dell’energia elettrica che inviano automaticamente in centrale i dati dei consumi, con i navigatori GPS che ricevono dal cloud le informazioni in tempo reale sugli ingorghi e le interruzioni stradali. Gli esempi sono tantissimi, e ogni giorno se ne aggiungono di nuovi. È normale accendere in anticipo il riscaldamento delle seconde case in montagna, avere un bollitore che entra in funzione mezz’ora dopo il suono della sveglia, dotarsi di impianti di illuminazione e di finestre sensibili al cambiamento del tempo. Qualche tempo fa Amazon aveva introdotto i dash-button: li consegnava a domicilio e il cliente, premendoli, inviava automaticamente l’ordine di acquisto per alcuni prodotti di uso comune, come i pannolini o i biscotti. Adesso ha perfezionato l’idea con Alexa, un assistente vocale che permette di ordinare merci, ascoltare canzoni, usufruire di svariati e sempre più complessi servizi.

Secondo le stime della solita Gartner, nel 2020 ci saranno 26 miliardi di oggetti connessi a livello globale, con un valore di mercato di ottanta miliardi di dollari, in continua crescita.  L’internet delle cose non ha limiti, a parte quelli legati alla inventiva degli sviluppatori e alla capacità di trasporto dei dati sulla rete.  Il 5G di cui tanto si sta parlando in questi giorni serve proprio a questo: veicolare una maggiore quantità di informazioni in tempi sempre più brevi. E infatti tra le specifiche del nuovo standard è indicata, oltre alla velocità di connessione e alla sua stabilità, la capacità di garantire centinaia di migliaia di connessioni simultanee per reti di sensori senza fili. Immaginiamo un condominio con venti appartamenti, dove in ogni appartamento siano installati una ventina di sensori che per svolgere le loro differenti funzioni devono essere costantemente collegati alla rete, inviando e ricevendo dati in modo sicuro e senza interferenze. Poi moltiplichiamo il risultato per tutti i condomini di una città.

Con l’internet delle cose si risparmiano tempo e fatica, e la vita, almeno in teoria, sembra più facile e comoda. Ma i problemi non mancano. Generalmente viene fatta una distinzione tra quelli legati alla sicurezza e quelli legati alla privacy, anche se  si tratta in realtà di due facce della stessa medaglia. Incominciamo con la sicurezza. Le cronache hanno ampiamente dimostrato che non esiste un sistema informatico completamente sicuro, che le password possono essere aggirate, che perfino le banche dati più protette possono essere attaccate degli hacker. E’ piacevole avvicinarsi alla propria auto e aprirla senza togliere la chiave dalla tasca, con un semplice tocco della mano sulla maniglia. Ma a un ladro esperto basta un apparecchio elettronico dal costo di pochi euro per clonare la chiave elettronica, e questo è molto meno piacevole, anche se probabilmente il proprietario sarà in grado di recuperare la macchina in poco tempo grazie al GPS auto-tracker nascosto in un punto inaccessibile della carrozzeria. 

Una società che faccia un largo uso dell’internet delle cose è una società più vulnerabile, che un nemico esterno può colpire e gettare nel caos con facilità. La guerra cibernetica è da anni considerata un tipo di guerra importante come quelle di terra, di cielo e di mare, e lo diventerà ancora di più nei prossimi anni. Di questa guerra, anche se non saremo noi presi singolarmente gli obbiettivi, è inevitabile che subiremo le conseguenze. Saremo danni collaterali, perché tutti i nostri preziosi dati, tutte le informazioni che servono a far funzionare le cose, passano attraverso i cloud creati in rete. Messi fuori uso quelli, nulla più funzionerà.

E questo ci porta a un secondo e forse più inquietante problema, quello della privacy. La privacy in rete non esiste, con buona pace delle norme del tutto inutili imposte dalla nostra authority sull’argomento. Siamo dei libri aperti: tutto quello che facciamo viene monitorato, analizzato, e venduto a chi è interessato. Sappiamo tutti che pochi minuti dopo aver fatto una ricerca su Google su un qualsiasi prodotto vedremo magicamente comparire sui nostri schermi i banner pubblicitari di prodotti simili. E lo stesso accade con i nostri dati personali: sesso, età, gusti, appartenenze politiche, amicizie, hobby. Grazie all’internet delle cose i gestori della rete ne sapranno sempre più. Sapranno quando usciamo di casa e a che ora andiamo a letto, sapranno dove andiamo quando usciamo, se abbiamo freddo o caldo, se siamo contenti o tristi. E naturalmente potranno usare tutte queste informazioni per condizionare le nostre scelte in modi così sofisticati che neppure ce ne accorgeremo, e anzi, saremo convinti di agire di testa nostra. Una forma di controllo sociale che nessuna grande dittatura della storia ha mai avuto prima. Dal Big Brother di orwelliana memoria siamo passati ai Big Data, che usano le loro immense conoscenze con lo scopo immediato della massimizzazione del profitto, ma potrebbero fare molto peggio. Il potere, per sua natura, non ha limiti. E se pensiamo per un momento alla violenza dello scontro commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina per  decidere chi gestirà la rete 5G in alcuni paesi della vecchia Europa capiremo che in ballo non ci sono soltanto i nostri piccoli e luccicanti telefonini.

Battista Gardoncini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potrebbero interessarti
LEGGI

L’ottimismo della conoscenza

Sulla sua pagina Facebook Guido Silvestri si presenta modestamente così: migrante italo-US, medico, scienziato, curioso di politica e…
LEGGI
LEGGI

Perché si chiamano bufale

Spopolano sul web, le “bufale”. Il termine è diventato di uso comune in questi tempi di post-verità, per…
LEGGI
LEGGI

Lo scandalo della Banca Romana

Ultime notizie dal mondo dorato dell’economia e della finanza. FCA è accusata di aver barato sulle emissioni dei…
LEGGI