Non facciamola troppo lunga, e neanche troppo tragica. La destra ha vinto le elezioni, e Giorgia Meloni è un legittimo presidente del consiglio, visto che guida il partito più forte della sua sgangherata coalizione. Più legittimo, per capirci, dell’ottimo Draghi, che ha governato il paese per un anno, otto mesi e sedici giorni tra i cori osannanti della stampa più asservita dell’Occidente, ma senza il sostegno della maggioranza degli italiani. Lo dimostrano due fatti incontrovertibili: la vittoria dell’unica forza politica rimasta fuori dal suo governo, e i risultati disastrosi ottenuti dai partiti che hanno fatto la loro campagna elettorale nel segno di una fantomatica “agenda Draghi”, sperando che dalle urne uscisse un risultato incerto, manipolabile con i consueti giochini di palazzo.
Questo non vuol dire che il governo Meloni sia un buon governo. Nella lista dei ministri ci sono molte vecchie conoscenze. Alcuni sono già stati ministri o sottosegretari con il governo Berlusconi IV, quello ingloriosamente caduto nel 2011 tra gli sberleffi dell’Europa intera: oltre alla stessa Meloni, ministro della gioventù, ricordiamo Raffaele Fitto, Annamaria Bernini, Roberto Calderoli, Guido Crosetto, Daniela Santanché, Elisabetta Casellati, Adolfo Urso, Nello Musumeci, Eugenia Roccella, Alfredo Mantovano. Altri, che non facevano parte di quel fallimentare governo, hanno comunque dato pessima prova di sé in occasioni diverse. Valga per tutti il fulgido esempio di Matteo Salvini, autore della storica impresa, riuscita in precedenza soltanto all’altro Matteo, di perdere milioni di voti in pochi mesi.
Alla fine, l’unica novità degna di nota è che il presidente del consiglio è una donna, cosa che sembra piacere anche a una parte della sinistra. Donna, madre e cristiana – come dice lei – ma anche un po’ fascista: un aspetto sul quale ultimamente preferisce glissare. Non è la prima, peraltro a rinnegare il passato. Veltroni e Fassino, che hanno dichiarato di non essere mai stati comunisti, le hanno indicato la strada.
Ma il punto è un altro. Il passato può non piacere, ma è passato. E’ il futuro che spaventa. Dimentichiamoci per un momento del variegato campo del centro sinistra sconfitto, che perde il suo tempo in futili discussioni sull’uso dello schwa invece di affrontare i nodi veri del confronto: in primo luogo la pace e la guerra, poi il fallimento delle politiche neo liberiste che hanno allontanato i suoi elettori, la disoccupazione, le pensioni, il reddito di cittadinanza. Pensiamo piuttosto a quello che potrebbe fare la destra nelle prossime settimane per affrontare la inevitabile crisi economica e sociale frutto dell’atlantismo sfrenato di Draghi e della mancanza di una politica europea autorevole e soprattutto autonoma.
Le tardive professioni di fede di Meloni a favore della Nato e dell’Ucraina aggredita valgono quanto gli inviti a lavorare insieme che il presidente Biden e altri leader occidentali le hanno rivolto a denti stretti, e cioè niente. Quando il gioco si farà duro, e alle famiglie europee arriveranno le nuove bollette, è altamente probabile che l’unanimità di facciata si sgretoli, e che ogni paese cerchi di risolvere da solo i problemi. La Germania lo ha già fatto, l’Italia lo farà, probabilmente cercando la sponda del filorusso Orban, che fino a poche settimane fa Meloni considerava un modello da imitare. Ma sarebbe una strada molto rischiosa per la sua sopravvivenza politica.
Pochi governi saranno in grado di reggere alla tempesta perfetta che sta per travolgere il vecchio continente, e tra questi non c’è sicuramente quello italiano appena insediato, con la sua armata brancaleone di politici troppo amanti dell’unico collante che molti di loro concepiscono: il potere. Se non fossimo tutti tragicamente coinvolti in una situazione che rischia di sfociare in una guerra nucleare potrebbe essere divertente sedersi sulla riva del fiume e attendere. Ma forse non ne avremo il tempo.
Battista Gardoncini
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