Il prestito FCA e i limoni di Marchionne

Sulla pagina Facebook di Orlando Perera, giornalista RAI di lungo corso ed esperienza, abbiamo trovato questa riflessione che riprendiamo con il consenso dell’autore.

Lemon, in italiano limone, nel gergo americano sta per bidone, riferito in origine soprattutto alle auto usate difettose. Ma oggi si è esteso anche ai modelli poco riusciti, nati vecchi o comunque brutti: patacche insomma. Gli esempi sono innumerevoli, e toccano tutte le principali case. Basti ricordare la Renault Dauphine degli anni Sessanta, pure molto venduta, nota anche come l’auto che capottava da ferma. Oppure, la paffuta Volkswagen 411 a motore posteriore, sempre di quegli anni, simile a una lavatrice messa in orizzontale su quattro ruote… (dopo la Maggiolino, la casa di Wolfsburg dovette aspettare il 1974 e la Golf disegnata da Giugiaro per ritrovare la sua ragion d’essere). Ma va ricordato anche un aristocratico cassone come la Rolls Royce Camargue del 1975, disegnata nientemeno che da Pininfarina, che a carissimo prezzo sbatacchiava le sue nobili lamiere su una meccanica vecchia di decenni. O ancora, per avvicinarmi all’obiettivo, un falso mito come la Ferrari 348 (la casa di Maranello è nell’orbita Fiat dal 1969), protagonista di un imprevedibile siparietto dell’allora presidente Ferrari Luca Cordero di Montezemolo. A un semaforo la sua 348 gialla venne stracciata in accelerazione da una Golf GTI, e il ragazzotto che la guidava, riconosciutolo, gli gridò “A’ Montezé, questa va molto meglio”. Montezé tornò furioso in azienda gridando “Una macchina di merda, fa rumore e non si muove!”. Insomma ce n’è per tutti, ma bisogna dire che negli ultimi decenni, Ferrari 348 a parte, il gruppo Fiat, ora FCA, e aspirante a un prestito di 6,3 miliardi con garanzia del governo, di limoni, o patacche, al mercato ne ha rifilate non poche. Basti citare la Duna, una delle più brutte macchine che si siano mai viste in circolazione, progettata per il Sudamerica alla fine degli anni Ottanta, cui Michele Serra dedicò pagine indimenticabili sulla rivista satirica “Cuore”; oppure la non meno scialba Palio, anch’essa costruita in Brasile, che da noi arrivò per fortuna solo in versione station. Ma il peggio lo vediamo dopo il 2004, anno in cui l’italo-canadese Sergio Marchionne, manager internazionale, diventa amministratore delegato di una Fiat alla canna del gas. L’uomo del maglione come lo chiamano gli americani, perché non portava mai la cravatta, né la giacca, sempre e solo un girocollo blu, per salvare il salvabile ha in mente un piano temerario. Ma bravo com’è, riesce a garantirsi l’appoggio dell’allora Presidente USA Obama, alle prese con lo stato fallimentare dell’industria automobilistica a stelle e strisce, e del suo consulente di settore, il banchiere Steve Rattner. Marchionne dopo una complicatissima trattativa e innumerevoli voli atlantici, non solo mette a posto tutti i pezzi sulla scacchiera, ma coinvolge anche l’UAW, il potente sindacato americano dell’auto, e realizza il progetto di una vita, una complessa fusione fra il gruppo Fiat e quello Chrysler. La casa di Auburn Hills, cinquanta chilometri di Detroit, è non meno sull’orlo del baratro, zero investimenti, livello tecnico da museo (i modelli più avanzati sono quelli con il marchio Jeep, ed è detto tutto), e ha un bisogno disperato di trovare un acquirente. Il bello è che per quest’operazione Marchionne non tira fuori un centesimo, offre in cambio solo know-how tecnologico. Un vero capolavoro di strategia finanziaria e di diplomazia internazionale. Il problema è che nemmeno la Fiat dispone di un grande patrimonio tecnologico, solo qualche piattaforma da condividere, e un paio di motori relativamente avanzati, come i multiair o i turbodiesel multijet. Incolmabile il ritardo rispetto alle altre case europee, ad esempio su ibrido ed elettrico. In più, oltre alla crisi aziendale, “Serghio” deve affrontare quella della finanza mondiale del 2008. Ma al Lingotto i cassetti, e anche la cassa, sono vuoti. Gli azionisti, le numerose ramificazioni della dinastia Agnelli, sono più interessati ai dividendi che al prodotto, e non resta molto per gli investimenti. Un vecchio problema, che risale alla sconfitta, alla fine degli anni Ottanta, dell’ingegner Vittorio Ghidella, ultimo uomo di prodotto, artefice di modelli come Fiat Uno, Croma e Tipo, Lancia Delta e Thema, Alfa Romeo 164 e Autobianchi Y10, e di un vigoroso rilancio del gruppo, che in quegli anni diventa il primo costruttore europeo e il terzo a livello mondiale! Ma lo scontro con l’allora amministratore delegato Cesare Romiti, uomo invece di sola finanza, imposto dal presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, segna la sua fine. Nel novembre 1988 vengono formalizzate le sue dimissioni e in poco tempo Fiat ricade nella spirale di una crisi senza fine. La gamma invecchia rapidamente, con tipici “limoni” come Bravo e Stilo (anche su questi nomi la satira si scatenò) che fecero flop sui mercati. Unico vero rilancio la 500 del 2006. Marchionne, che – parlandone da vivo – del prodotto non ha mai fatto una religione, si butta allora sul riciclo di avanzi del magazzino Chrysler o sul rilancio di vecchi modelli giapponesi, limitandosi a cambiare il marchio sui cofani (in gergo si chiama rebadging) e a imbellettare qua e là esterni e interni. Escono due SUV, la Freemont, che nasconde la Dodge Journey, e la Sedici, al secolo Suzuki SX4, poi la 124 spider, alias Mazda MX 5. Ma l’operazione più cinica avviene profanando il nome di due prestigiosi modelli Lancia, Thema, che ricicla un carro da morto come la pesante Chrysler 300c, e Flavia, rebadging della sgraziata e scadente Chrysler 200 cabrio. Rimarrà in produzione poco più di un anno, e ne saranno costruite solo 450. Poche migliaia invece le Thema, che finisce la sua breve vita come auto blu di rango (la usa ancora il Presidente del Consiglio Conte).
Con la sua politica spregiudicata Marchionne, sicuramente infaticabile e inflessibile stratega della finanza, salva da sicura morte due grandi gruppi dell’auto, e centinaia di migliaia di posti di lavoro (almeno 300mila nella sola America e qualche decina di migliaia in Italia), creando un produttore globale che si colloca all’ottavo posto nel mondo. Il prezzo di tutto questo è l’umiliazione e la virtuale morte di un marchio prestigioso come Lancia, già modello di innovazione tecnica, la Mercedes di Borgo San Paolo. Ma anche gli altri due marchi premium del gruppo, Maserati e Alfa Romeo, non stanno molto bene, mentre il già globale marchio Fiat, diventa sempre più marginale in Europa, e anche in Italia, dove di fatto gira attorno a soli due modelli, uno vecchio l’altro vetusto, nuova 500 e Panda, che una tardiva elettrificazione non salva dall’essere fuori tempo massimo. La maggior parte dei ricavi (66%) e dei profitti (85%) giunge oggi dall’America, ovvero dal marchio Jeep (anch’esso appunto non proprio di primo pelo). Tant’è vero che il nuovo AD Mike Manley, successore di Marchionne, arriva proprio da lì.
Nella furiosa polemica divampata sulla richiesta miliardaria di prestito avanzata dall’anglo-olandese FCA a Intesa San Paolo, che a norma del Decreto Liquidità dovrebbe essere garantito dallo Stato, sento proteste e accuse scandalizzate, e non nuove, sulla Fiat che tradizionalmente privatizza gli utili e pubblicizza le perdite. Tra l’altro, proprio in questi giorni, FCA sta diluendo ulteriormente il proprio impegno nell’auto, attraverso un’altra fusione, quella con la francese PSA (Peugeot, Citroën, Opel), e vuole distribuire agli azionisti (sempre loro) dividendi per un importo quasi pari ai 6,3 miliardi di euro oggetto del prestito. “I dividendi sono scolpiti nella pietra” ha proclamato il Presidente FCA John Elkann, si direbbe con scarso senso dell’opportunità e dei tempi, viste le condizioni post-pandemia del paese. Molti, ad esempio il vicesegretario del PD Andrea Orlando invocano giustamente controlli e garanzie. Ma forse il punto non è questo, e non lo è neppure il fatto che FCA abbia sede legale in Olanda e domicilio fiscale a Londra: gli insediamenti italiani restano comunque cospicui, e legittimano la richiesta di aiuto allo stato. Il vero nodo della questione sta in ciò che si è venuti fin qui argomentando, e cioè il sempre più visibile disimpegno della Presidenza e degli azionisti, che dovrebbero prioritariamente rispondere ad alcune domande. C’è un piano FCA su investimenti e assunzioni? Dove e per fare che cosa? Esiste un progetto di sviluppo ispirato a moderni criteri di sostenibilità e di mobilità? C’è un’autentica volontà di innovare per restare al passo con il mercato globale? Se così fosse – ma per ora non se ne vede traccia – allora il prestito va concesso. La sensazione è che presidenza e azionariato FCA guardino di fatto con sospetto al settore auto, ad alta intensità di capitale e bassa remunerazione, e siano fortemente tentati invece dalla grande finanza, che garantisce utili enormemente superiori e impegni assai meno gravosi. Se questa è la realtà, bisogna ricordare che il Decreto Liquidità nasce per salvare l’ancora valido sistema manifatturiero italiano, non per favorire acrobazie finanziare, né tantomeno per erogare grassi dividendi a più che benestanti azionisti. Altrimenti i nostri partner tedeschi, nel loro storico amore-odio per noi, sarebbero legittimati a riesumare il Goethe del canto di Mignon: Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn? Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni?

Orlando Perera

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