Il 2021 del giornalismo

Ci sarebbero tante cose da scrivere in questo primo post del 2021. Parole di speranza per i vaccini in arrivo, che potrebbero se non sconfiggere almeno mitigare l’impatto del Covid sulle nostre vite. Parole di desolata impotenza per l’ignoranza e la stupidità dilaganti, che i social amplificano, ma hanno radici profonde in una società dove non c’è più tempo per la riflessione e per lo studio. E anche qualche insulto per i troppi Renzi che trasformano la politica in una fogna maleodorante, dove i problemi della società annegano e resta a galla soltanto la ricerca del potere fine a se stesso.

Qui però voglio parlare soltanto dei piccoli e settoriali problemi del giornalismo, un mestiere che ho esercitato per quasi quaranta anni, e che oggi deve fare i conti con una crisi profonda e a mio parere irreversibile. Il 2021 rischia di essere l’anno del collasso del nostro sistema pensionistico, per il banalissimo motivo che i giornalisti in attività si stanno riducendo e vengono pagati sempre di meno, con il risultato che i loro versamenti all’istituto di previdenza della categoria, l’INPGI, non bastano a coprire l’attuale spesa pensionistica. Il bilancio dell’istituto, gravato anche dalla necessità di far fronte alle tante situazioni di crisi dei giornali e ai prepensionamenti, è in profondo rosso, e nulla fa pensare che le cose possano cambiare senza interventi radicali e coraggiosi. E proprio questo è il punto.

Non mi sto stracciando le vesti: penso che continuerò a ricevere una pensione, magari con qualche limatura, come è già accaduto negli ultimi anni, quando a noi pensionati è stato richiesto un piccolo contributo di solidarietà per far fronte alle prime avvisaglie della crisi. Ma guardo con crescente fastidio al rissoso dibattito in corso in una categoria che ricorda molto da vicino i proverbiali capponi di Renzo: divisa su tutto, e incapace di accettare la situazione. 

Molto semplificando, c’è una maggioranza di colleghi – e guarda caso tra loro ci sono gli attuali dirigenti dell’INPGI – che vorrebbe salvare l’istituto allargando la base contributiva a chiunque lavori nel settore della comunicazione: non solo chi opera negli uffici stampa e nelle associazioni professionali, dunque, ma anche docenti, liberi professionisti, funzionari di enti pubblici e privati. Stiamo parlando di circa trentamila persone che con il giornalismo c’entrano poco o nulla. Ma questo sarebbe un dettaglio trascurabile. Il fatto è che proprio loro, i diretti interessati,  non sembrano per nulla intenzionati ad abbandonare il porto sicuro delle loro previdenze, forse meno vantaggiose ma garantite dallo stato, per confluire in un ente dalle prospettive molto incerte come l’attuale INPGI. E lo hanno già fatto sapere con ripetute dichiarazioni delle loro rappresentanze. 

Condivido i loro dubbi. Come loro, e come un crescente numero di colleghi che sta incominciando a fare sentire la sua voce, penso che l’INPGI abbia fatto il suo tempo e che si debba ragionare sulle forme e sui modi di un suo riassorbimento nelI’INPS, dove i giornalisti perderebbero sicuramente qualche privilegio, ma otterrebbero in cambio stabilità e sicurezza. Ritardare il passaggio mi sembra un errore gravissimo, che potremmo pagare molto caro, così come rischiamo di pagare molto cara l’anacronistica difesa del nostro ordine professionale, un retaggio del passato che esiste soltanto in Italia e in pochi altri paesi. 

Il tempo delle illusioni è finito. Il giornalismo sta cambiando in tutto il mondo perché è venuto meno il suo presupposto fondamentale, e cioè l’esistenza di un gruppo professionale che deteneva il monopolio dell’informazione, e che si era dato regole, peraltro non sempre efficaci, per garantire gli utenti. Le infinite possibilità offerte dalla rete hanno frantumato le barriere. Oggi chiunque può produrre i suoi contenuti, diffonderli, commentare quelli altrui. Abbiamo accesso a una incredibile quantità di informazioni. A volte sono valide, a volte no. Spesso, troppo spesso, abbiamo a che fare con fake news e altri raffinati  sistemi di manipolazione del consenso. Ma dobbiamo renderci conto che la strada per combattere la spazzatura non passa attraverso una difesa senza speranza dell’esistente. Dipende da noi, dai nostri strumenti culturali, dalla nostra voglia di scavare oltre la superficie delle cose. E questo vale anche per il nostro pubblico. Scrivere su un giornale o sul web, o parlare in TV, è un mestiere come un altro. Si può fare più o meno bene, ma una tessera professionale non è una garanzia di qualità. Non lo è stata in passato, e sicuramente  non lo è più oggi. 

Battista Gardoncini

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