Ne è passato di tempo da quando Bob Dylan fece irruzione nelle nostre vite cantando che i tempi stavano cambiando, rivoluzionando la musica leggera e trasformandola in qualcosa di molto più importante, un atto politico, un potente strumento di lotta per la libertà. Erano i primi anni 60, e in Italia impazzava Wilma Goich con le sue colline in fiore. Un amico musicalmente evoluto ci portò dall’America un suo disco, e noi, ragazzini, capimmo che là fuori c’era un mondo nuovo che ci aspettava. Il 68 sarebbe arrivato soltanto quattro anni dopo, ma le sue canzoni aprirono la strada al futuro.
Il cammino di Dylan continua ancora oggi e la sua voce diventata roca con l’età continua ad accompagnarci e a emozionarci. Ha perso in freschezza, ma la forza evocativa resta intatta, e potente. Per questo abbiamo accolto con una punta di preoccupazione la notizia della vendita di tutte le sue canzoni all’ Universal Music Publishing Group, comparsa questa mattina sul New York Times. Un affare da trecento milioni di dollari, la più grande acquisizione di diritti della storia della musica. E, forse, il segno che a quasi ottanta anni, dopo aver venduto 125 milioni di dischi e ottenuto un meritatissimo Premio Nobel per la letteratura, il menestrello di Duluth si sente stanco, e potrebbe tirare i remi in barca.
Ne avrebbe tutti diritti. Ma vogliamo sperare che non sia così, che il suo Never Ending Tour non abbia davvero mai fine, che continui a sorprenderci come tante volte ha fatto nella sua vita, abbandonando la chitarra acustica e l’armonica per il rock più duro, mettendo in musica le sue crisi esistenziali e la conversione religiosa, rivisitando i vecchi successi in modo così radicale da renderli quasi irriconoscibili, cercando strade nuove e volte impervie. Abbiamo continuato a volergli bene, e gli abbiamo perdonato tutto, o quasi. L’unica cosa che non gli perdoneremo mai è se smettesse di cantare.
Non farlo, Bob. Ma, se accadesse, grazie di tutto.
Battista Gardoncini