Provare a rispondere a qualche semplice domanda sull’Afghanistan potrebbe forse aiutarci a capire meglio quello che sta accadendo in questi giorni. E a evitare di prendere sul serio alcune delle idiozie che stanno circolando sui giornali e sulle televisioni.
La prima riguarda i motivi che venti anni fa hanno portato gli americani a invadere il paese. Che non sono, come sembrano pensare i nostri smemorati commentatori, l’altruistico desiderio di portare agli afghani la democrazia e il nobile intento di liberare le donne dalla schiavitù del burqa. Molto più banalmente, l’allora presidente Bush occupò militarmente l’ Afghanistan perché pensava che fosse il modo migliore per combattere i terroristi che gli avevano buttato già le Torri Gemelle. Per lenire l’orgoglio ferito degli americani aveva bisogno di una bella guerra, e la fece, senza preoccuparsi di cercare giustificazioni accettabili. Allora il paese era governato con ripugnante brutalità dai talebani, ma soltanto il pensiero storicamente debole degli americani poteva confondere questo movimento con gli uomini di Al Qaida. Quanto all’arcinemico Osama Bin Laden, non vi era lo straccio di una prova che si trovasse in Afghanistan. E infatti, dieci anni dopo, fu localizzato e ucciso in Pakistan.
E qui veniamo alla seconda domanda. Perché noi italiani abbiamo seguito gli Stati Uniti nell’avventura? La risposta corretta è che ce lo hanno chiesto in quanto membri della Nato, che non è la Croce Rossa Internazionale, ma una alleanza militare che impegna i suoi membri a partecipare alla difesa comune. Già soltanto questo dimostrerebbe quanto sia assurda la nostra pretesa di esserci andati in missione di pace e per ricostruire il paese. Aggiungiamo i nostri 53 militari morti, i 700 feriti e gli oltre 8 miliardi di euro spesi per finanziare le missioni, e il quadro, nonostante le cortine fumogene di giornali e televisioni, diventa più chiaro. Eravamo lì per combattere, e abbiamo combattuto insieme a tutti gli altri membri della coalizione. E se non c’erano anche i nostri elicotteri a raccogliere chi fuggiva davanti all’avanzata dei talebani è soltanto perché ce ne siamo andati dal paese qualche settimana prima della fine.
I talebani hanno vinto, gli americani e i loro alleati, compreso il governo fantoccio di Ghani che si è affrettato a mettere in salvo la pelle e il malloppo negli Emirati Arabi Uniti, hanno perso. Almeno su questo non dovrebbero esserci dubbi. Ma anche in questo caso vale la pena di farsi qualche domanda. La prima, e la più importante, riguarda i talebani. Come hanno potuto vincere contro l’esercito più potente del mondo, che aveva in dotazione le armi più sofisticate e disponeva di finanziamenti quasi illimitati? È del tutto evidente che il coraggio e la conoscenza dei luoghi, senza il sostanziale appoggio di una parte consistente e probabilmente maggioritaria della popolazione, non sarebbero bastati. Evidentemente c’è un Afghanistan profondo che considerava la presenza degli infedeli occidentali alla stregua di una odiosa occupazione, e ritiene la vittoria dei talebani un male minore. Quell’Afghanistan non lo abbiamo mai visto negli anni del giornalismo embedded, e continuiamo a non vederlo oggi, concentrati come siamo sulle drammatiche vicende degli afghani in fuga o chiusi in casa in attesa della possibile vendetta dei vincitori. Guardiamo in televisione la loro disperazione, imprechiamo contro la crudeltà dei vincitori, ma ci dimentichiamo che sarebbe spettato all’Occidente, agli americani e anche a noi, fare tutto il possibile per salvare chi ha combattuto al nostro fianco.
Per la maggioranza degli afghani, chi ha accettato il modo di vivere occidentale e ha collaborato con il governo è un collaborazionista, e come tale va trattato. E questo vale anche per molte donne che hanno scelto con coraggio la strada della modernità, ribellandosi agli usi e ai costumi di una società tribale, arretrata e misogina. Ma restano una minoranza perfino a Kabul e nella parte del paese controllata dalle forze governative, dove chi rifiutava il burqa o la niqab poteva contare sul sostegno del potere. Basta guardare la drammatica fotografia scattata su un cargo americano preso d’assalto dagli afghani in fuga. Perfino lì, tra le centinaia di profughi assiepati e accaldati, la maggioranza delle donne era a volto coperto.
L’ultima domanda riguarda noi, ed è la stessa che ci poniamo ogni volta che una crisi esplode in qualche parte del mondo. Che fare?
Qualcuno, dimenticandosi dei fallimenti degli ultimi vent’anni, invoca un intervento militare indiretto, e pensa all’invio di fondi e di armi alle forze dell’Alleanza del Nord, che già una volta in passato si sono opposte allo strapotere dei talebani. Lo farebbero pensare anche alcune interviste a Ahmad Massoud, il semisconosciuto figlio del leggendario comandante Massoud, comparse in questi giorni sulla stampa americana e prontamente rilanciate dai giornali più filoatlantici di casa nostra. Altri pensano a ritorsioni finanziarie. Pare che alcuni istituti bancari americani stiano pensando al sequestro dei fondi afghani depositati sui loro conti. Una singolare forma di solidarietà ad esclusivo vantaggio dei loro bilanci. E infine c’è l’opzione umanitaria, che al momento sembra la più praticabile. Da una parte c’è l’Occidente sconfitto e sommerso dalla vergogna, dall’altra ci sono i talebani, che non sono soltanto i rozzi fanatici descritti dai nostri giornali, e sanno benissimo che un conto è conquistare un paese, un altro governarlo. Una qualche forma di accordo per garantire l’ordinato deflusso dei profughi e evitare una carneficina si può probabilmente trovare. Basta volerlo.
Battista Gardoncini