Coronavirus e solidarietà.

Marco Aime, antropologo e scrittore, ha appena pubblicato su Facebook una interessante riflessione sul tema ” emergenza coronavirus e riflessi sulla comunità”. Ve la proponiamo con il suo consenso.

In questi giorni di coronavirus circolano sui media molti appelli (sacrosanti) al rimanere in casa e a volte, in alcuni dibattiti, emerge anche una certa retorica del “siamo un grande Paese”, “un grande popolo”, su cui ci sarebbe qualcosa da ridire – siamo un paese medio, ci arrangiamo – ma si sente spesso dire che questa condizione di isolamento forzato e il rispetto che gli italiani stanno manifestando per le normative del governo siano il segno che siamo una vera comunità. 

È singolare questo richiamo: una comunità si costruisce e vive sulle relazioni e invece viene invocata proprio quando le relazioni diventano difficilissime, se non quasi impossibili. Ciò che ci accomuna, oggi, è innanzitutto la paura del virus, che si traduce nella paura dell’altro, non il desiderio di condividere spazi e tempi con lui. La gente (poca) per strada si evita, mantiene le distanze, cerca il maggiore isolamento possibile.

Una comunità, per durare nel tempo, deve produrre dei rituali, che la colleghino alla sua storia e che mettano in scena il legame tra i suoi membri. Ci stiamo provando, è vero, ma non è sufficiente mettersi a cantare sul balcone, o a suonare, ad applaudire. Sono iniziative lodevoli, ma non sufficienti, non abbastanza sentite e partecipate. Quella che stiamo vivendo è una dimensione sconosciuta, che ci costringe a prendere le distanze dagli altri, non a rafforzarle.

Leggo oggi che le donazioni di sangue stanno diminuendo e non abbiamo assistito a particolari slanci di solidarietà in questi giorni, che diano il senso della nascita di una vera comunità. Una comunità fondata sul male comune è destinata a scomparire con le prime, auspicate, guarigioni. Si ripete però che i bambini hanno voglia di ritornare a scuola e l’isolamento si fa pesante anche per gli adulti. Questo dovrebbe farci riflettere, non per l’ora e il qui, ma per quando tutto questo sarà finito. Sarà allora che potremmo dimostrare di avere capito quanto siamo soli e fragili.

Il nostro antropocentrismo ci ha indotti sempre di più a pensare di dominare ogni cosa, fino a quando arriva un affarino invisibile, che mette in ginocchio l’intero pianeta. Solo la collaborazione può difenderci da questo e altri attacchi, se lo capiremo allora sì che potrebbe nascere qualcosa di nuovo. Quello di cui abbiamo bisogno è di una vera e propria rivoluzione culturale, che ci faccia sollevare il capo, per guardare al di là delle frontiere e dei confini che ci dividono. Il virus non ha passaporto e non conosce barriere, l’unico modo per batterlo è diventare come lui, contrabbandiamo umanità e solidarietà. Allora sì, che potremo parlare di vera comunità.

Marco Aime

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potrebbero interessarti
LEGGI

L’ottimismo della conoscenza

Sulla sua pagina Facebook Guido Silvestri si presenta modestamente così: migrante italo-US, medico, scienziato, curioso di politica e…
LEGGI
LEGGI

Perché si chiamano bufale

Spopolano sul web, le “bufale”. Il termine è diventato di uso comune in questi tempi di post-verità, per…
LEGGI
LEGGI

Lo scandalo della Banca Romana

Ultime notizie dal mondo dorato dell’economia e della finanza. FCA è accusata di aver barato sulle emissioni dei…
LEGGI