Capitol Hill un anno dopo

A un anno di distanza dall’attacco dei dimostranti pro-Trump a Capitol Hill, se volete andare oltre le rievocazioni di maniera per cercare di capire che cosa c’era dietro alla celebre foto dello sciamano impellicciato, suggerisco la lettura di “Pericolo”, pubblicato in Italia da Solferino-Corriere della Sera. Scritto a due mani dal celebre reporter del Watergate Bob Woodward e dal suo collega del Washington Post Robert Costa, il libro ricostruisce nei dettagli quelle ore convulse, gli ultimi mesi della presidenza Trump e i primi della presidenza Biden, seguendo le regole del “deep background”. Il che significa – spiegano gli autori – che si basa su centinaia di ore di interviste registrate ai protagonisti e ai testimoni, che hanno concesso di usare le informazioni, ma non di dire chi le ha fornite. E a queste vanno naturalmente aggiunti articoli, documenti, mail, appunti di incontri, trascrizioni di atti ufficiali.

Ne esce un quadro molto preoccupante. L’attacco a Capitol Hill, secondo Woodward e Costa, non fu opera di una folla di manifestanti esasperati e fuori controllo, ma si inserì in un complesso disegno di ribaltamento dei risultati elettorali che il presidente Trump e i suoi più stretti collaboratori cercarono di realizzare attraverso una aggressiva offensiva legale sulle presunte irregolarità del voto, pressioni mirate su giudici, funzionari e politici, e forzature procedurali che, se accolte, avrebbero stravolto la costituzione e lo stato di diritto. Non fu certo un caso, dunque, se uno degli obiettivi dei dimostranti, quel giorno, fu il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence, al quale spettava il compito formale di contare i voti dei grandi elettori. Secondo Trump, invece, avrebbe dovuto invalidarne una parte per spostare la bilancia a suo favore. Pence rifiutò, e fu costretto a cercare rifugio nei sotterranei del palazzo, protetto dagli agenti della scorta. Mentre accadeva tutto questo, alle 14.24, il presidente Trump postò il suo primo tweet sulla vicenda, dove incredibilmente prendeva di mira lo stesso Pence, “che non aveva avuto il coraggio di fare ciò che doveva, in difesa del Paese e della Costituzione”. Soltanto tre quarti d’ora dopo, sollecitato anche dalla figlia Ivanka, scrisse un altro tweet dove chiedeva a tutti coloro che si trovavano a Capitol Hill di mantenere un atteggiamento pacifico, e di rispettare la legge e “i nostri grandi uomini in uniforme”. Non una parola su deputati e senatori costretti a fuggire, sui vandalismi, sui saccheggi. E neanche un invito a ritirarsi.

La ricostruzione di Woodward e Costa è dettagliata, impietosa e a tratti agghiacciante. Ad esempio, quando raccontano della telefonata che due giorni dopo l’assalto il generale Mark Milley, principale rappresentante delle forze armate del paese e capo dello stato maggiore congiunto, fece al suo omologo cinese Li Zuocheng per rassicurarlo sulla situazione interna degli Stati Uniti. “Fatti simili – disse Milley – rientrano nella natura della democrazia. Il nostro governo è solido. Va tutto bene. E’ solo che la democrazia è a volte confusionaria”. 

Non sappiamo quanto Li Zuocheng si sia sentito rassicurato. Sappiamo invece che poco dopo questa telefonata Milley si mise in contatto con il generale Philip Davidson, capo dell’ Indo-Pacific Command, e gli consigliò di rinviare una esercitazione militare già programmata, perché i cinesi avrebbero potuto considerarla una provocazione. Il consiglio fu accolto. 

Che Milley avesse seri dubbi sulle capacità di giudizio e sulla stabilità mentale di un Trump sconfitto e pieno di rancore nei confronti del mondo, ma ancora formalmente in carica, è dimostrato dalla sua successiva decisone: convocare i capi del National Military Command Center, il consiglio di guerra del Pentagono, per ripassare le procedure per il lancio delle armi nucleari. Milley spiegò ai colleghi che solo il presidente poteva dare gli ordini. Ma ricordò che quell’ordine non poteva essere eseguito senza coinvolgere il capo dello stato maggiore congiunto, cioè lui stesso.

A distanza di un anno dall’assalto a Capitol Hill alcuni dei dimostranti coinvolti, come lo Sciamano, sono stati processati e condannati. Altri attendono la sentenza a piede libero, il che è piuttosto insolito per gli standard della giustizia americana. 

E Trump? Intervenendo in pubblico nell’anniversario dell’assalto, il presidente Biden non ha citato per nome il suo predecessore ma ha parlato delle responsabilità della politica che antepone la ricerca del potere alla verità e alla giustizia. Secondo alcuni il suo discorso potrebbe essere la premessa per qualche azione legale nei confronti di Trump. Ma non bisogna dimenticare che per i fatti di Capitol Hill i democratici e anche alcuni repubblicani chiesero l’impeachment di Trump senza ottenere i voti necessari.

Liberi dalle cautele della politica, Woodward e Costa sono invece assai espliciti. Riconoscono che Trump era una forza politica straordinaria, un outsider, un costruttore. Ma anche un distruttore sicuro di sé, un attaccabrighe dalla parlantina sciolta che sapeva essere meschino e cattivo, intrigato dalla prospettiva del potere e ansioso di usare la paura per imporsi. E si chiedono: riuscirà di nuovo a imporsi? Ci sono dei limiti a ciò che lui e i suoi sostenitori potrebbero fare per riportarlo al potere? 

Il pericolo – concludono – rimane.

Battista Gardoncini

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