Maurizio Ardito, ex direttore della del Cento di Produzione di Torino e della Produzione Televisiva RAI, ci ha mandato questa interessante riflessione sul futuro del servizio Pubblico Radiotelevisivo.
Il mondo dei media in seguito alla rivoluzione digitale è cambiato irreversibilmente. Non si può pensare che l’unico baluardo a difesa di ciò che fu resti, immutato, il Servizio Pubblico Radiotelevisivo. Già nel nome c’è una contraddizione, parlare di Servizio Pubblico Radiotelevisivo nell’era della convergenza tra i media ormai è quasi un ossimoro.
Tutte le ragioni di carattere tecnologico, sociale ed economico che portarono in Europa alla nascita dei servizi pubblici radiotelevisivi sono state spazzate via. Nel campo tecnologico si è passati dalla scarsità dei mezzi trasmissivi, che limitava il pluralismo a causa delle frequenze incapaci di garantire in analogico una copertura a molti soggetti televisivi su scala nazionale, all’abbondanza. Nel dopoguerra, in Europa, a causa dell’insufficiente sviluppo del mercato pubblicitario, era impossibile sostenere contemporaneamente più imprese televisive commerciali. In Italia, inoltre, si sentiva l’esigenza di unificare culturalmente e socialmente la nazione. Di qui nacque l’idea di un soggetto pubblico che garantisse tutti.
Nessuno ha mai pensato, per garantire il pluralismo nel campo dell’informazione, alla necessità del “Servizio Pubblico della Carta Stampata”, perché non esistevano gli stessi vincoli, eppure l’ esigenza di un’informazione corretta nella carta stampata è la stessa della TV. Nei giornali il problema è stato affrontato con incentivi e agevolazioni agli organi di partito, ma anche in questo settore le cose da tempo non funzionano come dovrebbero.
Se non è nell’informazione, allora la ragione del Servizio Pubblico Radiotelevisivo deve nascondersi nella produzione dei programmi . Ma la RAI non è la BBC e chi dice che la Rai dovrebbe imitare la BBC non sa di cosa si sta parlando. La BBC, che non ha pubblicità e quindi può concentrarsi su programmi di servizio pubblico, ha entrate pubbliche quasi doppie in confronto a quelle della RAI. Poiché senza gli introiti pubblicitari la RAI sarebbe in bancarotta, ovviamente sono gli investitori ad avere l’ultima parola sul prodotto, e non può che essere così. Pensare che il ruolo degli investitori pubblicitari sia quello di svolgere una politica culturale nella formazione del gusto dell’utente e nell’affermazione di “valori” sarebbe talmente ingenuo da risultare ridicolo. Qualsiasi politico che proponesse di raddoppiare il Canone Rai per svincolarla dalla pubblicità sarebbe fucilato immediatamente sulla pubblica piazza.
Nell’era della disintermediazione, sul solo YouTube oltre un miliardo di utenti, quasi un terzo di tutti gli utenti Internet, ogni giorno guarda e carica centinaia di milioni di ore di video che generano miliardi di visualizzazioni. Ormai con i dispositivi di memoria incorporati nei televisori la fruizione della TV è sempre più svincolata dal momento dell’emissione e quindi dalla rete che veicola il programma, e i palinsesti personalizzati sono sempre più all’ordine del giorno. Gli italiani si adeguano alle pratiche di fruizione della social tv: quasi il 47% utilizza il pc per guardare contenuti audiovisivi, al secondo posto c’è il tablet con una percentuale di quasi il 40%, e con questi strumenti la fruizione non è legata allo streaming.
In questo contesto la RAI è ancora sostanzialmente quella uscita dalla riforma del ’75 rimaneggiata dalla Legge Mammì del ’90 riveduta e corretta da Gasparri nel 2004. Preistoria. La finta riforma di Renzi è solo un furbesco cambiamento delle regole di Governance. In pratica l’ultimo tentativo della sinistra di affrontare il tema del Servizio Pubblico Radiotelevisivo risale al ‘75. Alla base della ristrutturazione vi era il progetto “Bolacchi” , che era un consigliere di amministrazione RAI democristiano. Le Regioni, istituite da poco, per contrastare la direzione romanocentrica della Rai, inventarono il ruolo del decentramento ideativo produttivo. Si puntava sulla pluralità di fonti ideative disseminate sul territorio (Roma uguale a Campobasso). La Rai ovviamente ha uno stomaco robusto in grado di digerire anche i sassi. Con Angelo Guglielmi la struttura che avrebbe dovuto coordinare all’interno della terza rete le proposte del territorio iniziò a produrre programmi in proprio, per cui la riforma nata per ridurre il distacco tra centro e periferia finì con l’aumentarlo. E dopo questo eroico tentativo di dare un senso al Servizio Pubblico Radiotelevisivo, non ci fu più uno straccio di idea e di elaborazione.
Ovviamente la riforma RAI non fu in grado di impedire la nascita della TV commerciale. Per mettere d’accordo tutti, dai comunisti ai democristiani e ai nascenti berlusconiani, i socialisti inventarono il paradigma geniale “alla RAI gli ascolti e a Mediaset i soldi”, che funzionò egregiamente per molti anni. La rivoluzione digitale ormai ha messo in crisi anche questo paradigma, ma non ci sono più socialisti geniali a trovare un’altra soluzione. Ogniqualvolta si affronta il tema scatta il riflesso pavloviano : “Giù le mani dal Servizio Pubblico”, “il Servizio Pubblico non si tocca”. Peccato che in pratica non esista più da anni. Negli anni 2000, per fare fronte alla crisi della TV generalista che iniziava a mordere anche Mediaset, la nomina e il coordinamento delle strutture RAI furono addirittura affidati direttamente a Mediaset “per fare sinergia”, nell’indifferenza di tutti.
La RAI da tempo è il vero premio di maggioranza di chi vince le elezioni. Chi invoca “l’autonomia della RAI dalla politica” non si rende conto che senza la stampella della politica la RAI, nell’attuale quadro di riferimento dei media, durerebbe pochi mesi. Ormai da tempo tutta l’ideazione e gran parte della produzione è affidata all’esterno. Questo processo è irreversibile sia da un punto di vista organizzativo sia da quello finanziario.
Come al solito, piuttosto che affrontare il problema e verificare con coraggio se esista ancora un ruolo per il Servizio Pubblico Radiotelevisivo nell’era digitale e della convergenza tra i media ed eventualmente presentare proposte, la sinistra si limita a ripetere vecchi slogan. Poi ci si stupisce se perde credibilità e consensi.
Maurizio Ardito