Nessuno dei parlamentari eletti nel 2018, indipendentemente dal partito di appartenenza, avrebbe la garanzia di essere rieletto. E’ questo il banalissimo motivo che rende altamente improbabile un ritorno alle urne in tempi brevi, e che costringe gli strateghi della politica a fare gli straordinari per trovare una soluzione costituzionalmente accettabile alla crisi aperta dall’impaziente Matteo Salvini, un po’ troppo propenso a scambiare i suoi desideri con la realtà.
Tutto al momento è possibile, e non è affatto detto che la situazione si chiarisca martedì, quando il presidente del consiglio Conte si presenterà in senato per le sue comunicazioni, perché le variabili sono molte, e per il momento nessun giocatore ha interesse a scoprire le carte: le dichiarazioni che filtrano in queste ore sembrano più messaggi in codice rivolti ad amici e avversari che vere riflessioni politiche, e dunque il Paese dovrà aspettare ancora. Del resto ci è abituato, fin dai tempi quasi dimenticati della prima repubblica e delle sue ricorrenti crisi di governo.
A complicare le cose, peraltro, sono le incertezze sui destini individuali, le rinnovate ambizioni di leader veri o presunti, le caselle da riempire nel caso che si arrivasse alla formazione di un nuovo governo con una diversa maggioranza. Non il quadro politico generale, che è rimasto lo stesso uscito dalle elezioni del marzo 2018: un paese diviso in tre, dove nessuna delle forze in campo, neppure i Cinque Stelle forti di un clamoroso 33%, era in grado di governare da sola. Di qui la necessità di alleanze tra forze eterogenee, come quasi sempre accade quando si vota con un sistema elettorale prevalentemente proporzionale, come accadde nel 2018.
Allora il PD, che aveva perso le elezioni ma restava pur sempre il secondo partito italiano, scelse il suicidio accomodandosi in platea a mangiare pop-corn, e lasciò campo libero al patto di governo tra Di Maio e Salvini. Quel che è accaduto poi è noto. Secondo i sondaggi l’ingenuo Di Maio è riuscito nella “mission impossible” di perdere quasi la metà dei suoi voti e il furbo Salvini ne ha approfittato per raddoppiare i suoi. Il PD ha silurato Renzi, ma il suo successore Zingaretti non brilla e deve fare i conti con gruppi parlamentari che ancora rispondono al vecchio capo.
Se si votasse oggi il centro-destra riuscirebbe probabilmente ad ottenere la maggioranza e a governare da solo. Ma difficilmente si voterà, e Salvini, con il 17% dei voti raccolti nel 2018, sembra destinato a twittare a vuoto per il resto della legislatura.
Resta da vedere se lo farà dal suo posto di vicepresidente di una rinnovata maggioranza giallo-verde, o dai banchi della opposizione a una coalizione giallo-rossa, che curiosamente potrebbe nascere con l’appoggio di Matteo Renzi, lo stesso uomo che a suo tempo l’aveva affossata a un passo dal varo.
Giravolte individuali a parte, questa nuova maggioranza qualcosa di buono nei prossimi mesi potrebbe forse fare, e non soltanto per i conti pubblici perennemente disastrati, ma anche, ad esempio, varando una legge elettorale meno folle dell’attuale, cercando di ricucire i rapporti con l’Europa e eleggendo nel 2022 un degno successore del presidente Mattarella.
Forse è chiedere troppo. Ma sperare non costa nulla.
Battista Gardoncini