Le promesse di Vito Crimi

Chiunque abbia sentito parlare per almeno cinque minuti il sottosegretario con delega all’editoria Vito Crimi conosce i limiti dell’uomo, pentastellato della prima ora, catapultato dal grigiore di una cancelleria di tribunale ai fasti del  governo da una manciata di voti on line.  E tuttavia anche un uomo limitato, a volte, può dire una cosa giusta. Vito Crimi l’ha detta nei giorni scorsi, chiedendosi se l’ordine del giornalisti abbia ancora un senso, e se non sarebbe meglio abolirlo. E dandosi una risposta, ovviamente positiva, ma rinviando ogni decisione ad ottobre, quando si dovrebbe sapere qualcosa di più dei progetti di autoriforma che l’ordine stesso sta faticosamente portando avanti.

L’ordine dei giornalisti italiano è una anomalia. Non perché negli altri paesi non esistano forme di regolamentazione e di tutela dell’attività giornalistica, quasi tutte basate sull’associazionismo o sul sindacato, ma per le sue caratteristiche. Infatti è ancora quello nato da una legge del 1963, che fotografava una realtà completamente diversa, fatta di grandi giornali, di un unico servizio radiotelevisivo pubblico e di qualche agenzia di stampa.  Tutto ciò che è arrivato dopo, dalla piccola editoria locale al web, gli è sostanzialmente estraneo.  E sembra incredibile che nell’epoca dei social  ancora si discuta al suo interno della anacronistica distinzione tra giornalisti professionisti e pubblicisti, e del fatto che questi ultimi,  cresciuti in modo esponenziale inglobando gente che con il giornalismo c’entra poco o nulla, abbiano ottenuto un potere eccessivo. 

Oggi in Italia abbiamo oltre 110 mila giornalisti  ufficialmente riconosciuti, uno ogni 550 abitanti. Ma soltanto 59 mila  risultano iscritti all’INPGI, la cassa di previdenza della categoria. Di questi 23 mila  dichiarano un reddito zero, 7 mila sono pensionati e 7 mila usufruiscono di ammortizzatori sociali. Va poi considerato che la percentuale degli iscritti all’INPGI che fanno parte della gestione principale — quella dei cosiddetti garantiti — è appena del 27%. Tutti gli altri sono collaboratori o free-lance, e cioè, per dirla brutalmente, precari mal pagati e esposti a ogni sorta di condizionamenti e ritorsioni.

Questi numeri, che trovate nel dettaglio qui, non sono soltanto preoccupanti. Insieme a quelli sul crollo delle vendite della carta stampata, certificano la morte di una categoria. Si badi, non di un mestiere, perché di persone che raccontino onestamente i fatti il mondo avrà sempre un gran bisogno. Ma di una categoria organizzata nelle forme che abbiamo conosciuto finora, come dimostrano le sorti dell’INPGI, destinata a confluire nell’INPS per il perenne disavanzo tra i versamenti di chi lavora e la spesa pensionistica, e della Casagit, la cassa mutua di categoria, che sopravvive solo perché sta diventando sempre più simile a una  assicurazione sanitaria privata. 

Tante le cause della crisi.  Una è di carattere generale. Il web può dare immediata visibilità a qualsiasi contenuto, senza alcun tipo di mediazione. Chiunque può dire la sua, dalle grandi istituzioni alle legioni di imbecilli su cui si soffermò Umberto Eco in una delle sue ultime interviste. E, se tutti possono farlo, viene meno il ruolo sociale dei giornalisti,  che fino a pochi anni fa detenevano l’immenso potere di stabilire che cosa era importante e che cosa non lo era, dando e togliendo la parola a loro insindacabile giudizio. Non è detto che questo sia un bene per l’interesse comune, perché espone l’opinione pubblica a ogni sorta di manipolazioni, dalle fake news alle campagne di condizionamento sui social. Ma non si tornerà indietro, con buona pace di tutti i tentativi di regolamentazione della rete di cui periodicamente si parla.

Di altri errori, invece, editori e giornalisti condividono con gradi diversi la responsabilità. Il livello della informazione professionale è scaduto: invece di migliorare i loro prodotti, come sarebbe stato logico fare viste le premesse, gli editori hanno scelto la strada più facile e più stupida della omologazione, riducendo le spese e ridimensionando gli organici. E i giornalisti, sottoposti al ricatto del posto di lavoro, l’hanno accettata. Il risultato era inevitabile: sempre più spesso abbiamo a che fare con articoli costruiti con il copia e incolla dai comunicati stampa, con microfoni porti senza contraddittorio al potente di turno, con pagine  dove non esistono più distinzioni  tra l’informazione e la comunicazione, tra i fatti e le campagne pubblicitarie, tra il vero e il falso.

Di fronte a tutto questo l’ordine dei giornalisti si è dimostrato per molti anni cieco o incapace di reagire. Verrebbe spontaneo pensare all’orchestra del Titanic, che suonava mentre il transatlantico affondava, se non fosse che nel caso dell’ordine  c’è l’ aggravante della preoccupazione dei “suonatori” per la propria incolumità. Le piccate reazioni che hanno accolto le esternazioni  del sottosegretario con delega all’editoria Vito Crimi sono da questo punto di vista indicative.

“Nessuno pensi che le minacce abolizioniste possano tacitare i giornalisti italiani — ha dichiarato il presidente dell’ordine Carlo Verna, eletto recentemente da una maggioranza che si autodefinisce riformista — noi andremo avanti nel nostro cantiere senza pressioni e condizionamenti di alcun tipo”. Ma sul fatto che un volonteroso capomastro possa trasformare una casa mal progettata in un meraviglioso e moderno edificio è lecito qualche dubbio. Con tutti i suoi limiti, Crimi ha espresso una perplessità condivisa e confermata da molti sondaggi d’opinione, che vedono i giornalisti agli ultimi posti nelle classifiche della fiducia e del gradimento degli italiani. Non è detto che sia vero. E tuttavia una qualche riflessione sul fatto che l’ informazione non abbia bisogno del tesserino di un ordine, ma di giornalisti competenti e leali nei confronti del pubblico, andrebbe fatta.

Diciamo la verità: in giro non se ne vedono molti, e la strada che il giornalismo italiano dovrà percorrere per recuperare l’autorevolezza perduta sarà lunga e accidentata. Tanto lunga e tanto accidentata da far pensare che senza un profondo rinnovamento di persone e forme organizzative non si andrà lontano. Qualità e competenze oggi sono merci rare, a volte addirittura sbeffeggiate da una società che comunica a base di  tweet e comparsate televisive. Un giornalismo che le rimettesse al centro della sua azione sarebbe probabilmente un giornalismo d’élite per un pubblico di élite, e non si può certo pretendere che possa piacere all’attuale ordine professionale. Tuttavia bisognerà ragionarci su, se per puro caso il sottosegretario con delega all’editoria Vito Crimi decidesse di mantenere le promesse.

Battista Gardoncini

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