Dopo il Lingotto

Facciano un po’ quello che vogliono, tanto non li voto più. Questo è l’unico commento che mi viene in mente dopo la kermesse renziana del Lingotto, e credo che a pensarla così siano in tanti. Però bisogna sempre cercare di capire le ragioni altrui, anche quando risultano oscure. E dunque sembra lecito interrogarsi sui motivi  che possono spingere un militante del  PD a sostenere la candidatura di Renzi alla segreteria.

Certo non per i risultati ottenuti, a parte quel quaranta per cento raggiunto nel 2014 nelle elezioni europee, che venne sulla spinta dell’entusiasmo e dopo l’elargizione dei famosi ottanta euro in busta paga a una fetta dell’elettorato. Ma nel frattempo l’entusiasmo è scemato, e una parte di quell’elettorato sarà costretta a restituire i soldi a causa di un incredibile pasticcio burocratico. Da allora la gestione pigliatutto di Renzi, premier e segretario di partito, è stato un susseguirsi di disastri. E’ stato un fallimento il Jobs Act, con i voucher che in questi giorni il governo Gentiloni sta cercando di riformare, e soprattutto con gli impietosi dati che arrivano dal mondo del lavoro e della produzione industriale. Ha fatto arrabbiare tutti  la buona scuola, anche in questo caso in corso di revisione ad opera del ministro Fedeli, che non sarà laureata, però a differenza di chi l’ha preceduta, capisce la necessità del dialogo con le parti sociali. La pressione fiscale non si è ridotta, ma in compenso è salito il  debito pubblico, come periodicamente ci ricorda l’Europa. La madre di tutte le riforme, quella costituzionale, è stata sepolta da una schiacciante maggioranza di no. E perfino il partito è in stato comatoso, con le sezioni che chiudono, i militanti che non rinnovano la tessera, e l’Unità sull’orlo del fallimento.

Ciononostante Renzi continua ad avere la fiducia di molti. Si saprà se saranno sufficienti per restituirgli il controllo del partito soltanto il 30 aprile, perché le primarie indette per quel giorno non hanno affatto un esito scontato. Ma se anche lo fossero, desta qualche perplessità l’argomentazione che si sente spesso ripetere da chi lo sostiene. Dire che “Renzi è pieno di difetti ma non ci sono alternative” non serve a costruire una politica nuova, capace di attrarre gli elettori del centro sinistra delusi da quanto è accaduto. Può tuttalpiù giustificare una scelta di campo dove le idee contano meno delle  motivazioni personali e di convenienza.

E qui si arriva alla radice del problema. Renzi aveva conquistato la guida del PD, e in seguito del governo, forte del sostegno che gli era venuto da chi, dentro e fuori il partito, non ne poteva più del vecchio modo di fare politica, e sperava che all’efficace slogan della rottamazione sarebbero seguiti fatti concreti, scelte coraggiose, e un vero rinnovamento. Così non è stato. In molti casi i rottamatori si sono dimostrati peggiori dei rottamati, e sono bastati pochi mesi per capire che la parlantina sciolta del leader nascondeva una preoccupante assenza di strategia e di sostanza. Come ha dimostrato il referendum costituzionale, in pochi anni Renzi ha dilapidato lo straordinario patrimonio di speranze e di energie che lo aveva portato ai vertici del partito e dello stato. E oggi, stando ai sondaggi,  ha il sostegno della maggioranza degli eletti e degli amministratori che hanno tratto vantaggio dagli anni del suo potere, che sono migliaia, ma non quello dei suoi  elettori di riferimento, che sono milioni. Per questo potrà forse vincere le primarie, ma è molto dubbio che possa ancora essere competitivo in un confronto elettorale con i Cinque Stelle, che continuano a godere di ottima salute nonostante i problemi della giunta Raggi.

Dunque l’unica strada che resta aperta a un PD guidato da Renzi è quella di una legge elettorale che consenta dopo il voto un accordo con il centro-destra. Almeno per me, anche questo è un buon motivo per non votarlo.

Battista Gardoncini

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