C’è anche un premio del pubblico al Torino film festival, tra gli altri assegnati dalla giuria, ma ora bisognerebbe istituirne uno nuovo: un premio “per” il pubblico. Perché in questa 35esima edizione i veri protagonisti sono stati loro, gli spettatori, più di ogni altro anno. Quel pubblico di appassionati, cinefili, semplici spettatori, giovani ed ex giovani, che non hanno voluto far mancare la loro presenza, il loro calore. Quella “partecipazione” di cui oggi il festival ha davvero bisogno.
Vince il pubblico, ma non gli organizzatori del Festival, i quali riducendo i fondi, le sale, i posti disponibili e i film, hanno fatto perdere al Tff un prezioso numero di spettatori. I vertici hanno diffuso con molto comodo, ben tre giorni dopo, i risultati di questa edizione: 63 mila presenze contro le 78 mila dell’anno scorso; 26.700 biglietti venduti quest’anno contro i 29.300 del 2016; e scendono ovviamente anche gli incassi, da 271 mila euro a 250 mila. E c’è anche da ricordare che il costo degli abbonamenti è aumentato di oltre il 10 per cento.
Anziché consolidarsi e magari anche crescere conquistando nuovi spettatori, come tendono a fare tutte le altre analoghe manifestazioni, il festival di Torino dunque va indietro. Chi lo organizza si consola dicendo che quest’anno c’erano meno sale, eccetera, e che i risultati sono in linea con quelli dell’anno scorso. Certo, saranno “in linea”, ma i numeri dicono di un pericoloso arretramento.
Comunque ha vinto il calore del pubblico, a dispetto di chi dal Museo del cinema, che assegna di anno in anno i fondi alle diverse manifestazioni, e dal Comune, che alla Mole ha fatto venir meno più di 500 mila euro, ha tagliato al festival quasi 300 mila preziosi euro, riducendo le risorse a poco più di 2 milioni, minimo storico, almeno degli ultimi tempi. Un taglio “in buona fede”, s’intende, certamente ritenuto necessario. Ma proprio per questo, forse più pericoloso, perché con la buona fede e quella sorta di stato di necessità, diventa in qualche modo inattaccabile.
Minimo storico e minimo sindacale per mettere insieme una manifestazione degna della sua storia e del suo indiscusso prestigio, nazionale e internazionale. Senza dimenticare che anche la cifra “piena”, meno di 2 milioni e mezzo, è ben misera cosa rispetto alle somme kolossal di cui dispongono altre manifestazioni in Italia e all’estero. E Torino, se non a competere, può provare almeno ad affiancarsi con orgoglio ad altri festival ben più importanti. Se è vero che la città ha perso vecchie “vocazioni” e ne cerca di nuove, un festival di cinema che non abbia un complesso di inferiorità può far parte a pieno titolo di quei nuovi percorsi.
Eppure il direttore Emanuela Martini, nonostante i fondi ridotti all’osso, ce l’ha fatta, almeno per la qualità dei film che ha proposto, nel concorso e nelle altre sezioni. Anche se ha dovuto fare a meno delle 3 sale del cinema Lux di Galleria san Federico, 500 posti e importante luogo di visibilità per il festival. Non è stato assegnato il Premio Cabiria, che ricorda le origini torinesi del cinema italiano. Non sono state montate le tre lettere rosse giganti in piazza Castello, altro punto di richiamo per la città che celebra il festival. E soprattutto il direttore non ha potuto invitare almeno un ospite di fama internazionale e di assoluta riconoscibilità.
E il pubblico ha reagito. Spesso, disciplinatamente in coda, dal pomeriggio alla sera ha riempito le sale del cinema Massimo e del Reposi. Gli spettatori hanno risposto: se con la vostra buona fede e il presunto stato di necessità non vi accorgete che rischiate di condannare il Torino film festival alla minorità e alla irrilevanza, e dunque al declino, noi siamo qui a difenderlo. Del resto i film hanno in gran parte soddisfatto le attese. A cominciare dalla pellicola che ha vinto, Don’t forget me, debutto nella regia del giovane israeliano Ram Nehari. Attraverso le vicende di una ragazza anoressica e di un giovane suonatore di tuba un po’ fuori di testa, uno spaccato del mondo giovanile di Israele e della complessa identità del paese.
Ora il Museo del cinema e il festival vivono un difficile momento di transizione. Il presidente della Mole Laura Milani ha progetti di rinnovamento e ristrutturazione ancora tutti da conoscere, da verificare e da discutere. C’è da nominare un direttore del Museo, e si parla di un responsabile solo amministrativo e non scientifico-artistico, come invece accade in tutti musei di valore e di prestigio. Al bilancio di previsione del 2018 manca una cifra intorno ai 200 mila euro – erano 500, ma 300 sarebbero stati già recuperati – e i soci, Regione, Comune, fondazioni bancarie, Gtt, sono chiamati a un nuovo sforzo economico.
La Regione è già pronta a versare 50 mila euro, gli altri non si sa ancora come risponderanno. E intanto gli assessori Antonella Parigi, Regione, e Marco Giusta, Comune, litigano: la Città faccia la sua parte, sollecita l’esponente regionale. In ballo c’è anche il futuro del festival di Cinema gay, ora chiamato Lovers, la cui ultima edizione ha registrato un sostanziale fallimento, con una clamorosa perdita di spettatori. Dalle parti della Mole c’è chi pensa ad un accorpamento con il Torino film festival. Ma l’idea, legata alla carenza delle risorse e di per sé nefasta, sta suscitando altre polemiche, politiche tra Regione e Comune, e delle associazioni degli omosessuali. Anche Cinemambiente rischia di correre la sua dose di pericoli, per quanto buona parte dei suoi fondi siano garantiti da sponsor e sostenitori.
E ancora. Per il Torino film festival c’è la conclusione del mandato del direttore, che scade a fine dicembre. La Martini dice di essere disponibile a continuare, ma sembra che i rapporti con la Milani, che a quanto pare vuole interpretare il suo ruolo “a tutto campo”, non siano idilliaci. Piena cordialità, ma al momento niente di più.
Nino Battaglia