Il 25 aprile tra storia e memoria

Il 25 aprile è la nostra storia, ed è anche quella di Salvini, che non lo sa o fa finta di non saperlo. Riflettere è oggi più che mai necessario. Qui lo voglio fare sul filo della memoria, che è cosa diversa dalla storia, perché non esclude i ricordi personali e famigliari, le emozioni e un pò di giusta indignazione per l’ignoranza abissale che traspare da alcune dichiarazioni. Non merita commenti la riduzione della Resistenza a un derby tra fascisti e comunisti. Ma è troppo facile – e forse più pericoloso – dire che sono passati tanti anni, ed è profondamente ingiusto pretendere di giudicare i comportamenti e perfino gli errori di quel periodo di guerra – anzi di guerra civile – con il metro della pace e del benessere che quei tempi durissimi hanno avuto il merito di regalarci.

La prima riflessione riguarda i numeri. La Resistenza, intesa come resistenza armata ai tedeschi che avevano occupato l’Italia e ai fascisti che li hanno fiancheggiati, non è stata un fenomeno di massa. Intere parti del paese, come il sud, non sono state coinvolte grazie alla rapida avanzata degli alleati dopo lo sbarco in Sicilia. E anche dove la Resistenza c’è stata non bisogna mai dimenticare quanto grande fosse la zona grigia di quelli che non si schieravano, e tiravano a campare, aspettando la fine della bufera.  

Secondo i dati nazionali che sta raccogliendo il portale Partigiani d’Italia, tra il 1945 e  il 1994 vennero ufficialmente presentate circa 700 mila domande per ottenere la qualifica di partigiani combattenti, ma ne vennero accolte soltanto  137 mila.  Una cifra molto vicina alle prime stime fatte subito dopo la guerra, che parlavano di 150 mila combattenti, diventarti 250 mila solo negli ultimi giorni della guerra, quando la sconfitta dei tedeschi era certa. Ma questo non giustifica la sottovalutazione che a volte si fa del loro ruolo.

Tutti abbiamo sentito parlare dello sbarco in Normandia, e il cinema ha celebrato l’eroico comportamento dei soldati americani che nel D-Day sbarcarono sotto il fuoco nemico sulla spiaggia di Omaha Beach e subirono perdite ingenti, duemila uomini secondo alcune fonti, quattromila secondo altre. Quello sbarco, e quelle vittime,  sono giustamente entrati a far parte della memoria collettiva, in tutto il mondo. Non ci sono mai stati dubbi su quello che accadde, sui torti e le ragioni, e non si sono cercate giustificazioni per il comportamento  dei tedeschi, che peraltro quel giorno persero 1200 uomini. Omaha Beach è diventata una icona della storia, senza se e senza ma. Non altrettanto è accaduto, purtroppo, per gli oltre tremila partigiani caduti nei venti mesi della guerra partigiana nella sola provincia di Torino. A mio avviso quei partigiani possono a buon diritto essere considerati tra i padri fondatori della nostra repubblica, ma per troppi fanno parte di un passato da dimenticare e per alcuni dovrebbero addirittura essere processati a posteriori per la grave colpa di avere imbracciato le armi.

E qui arriva la seconda riflessione. Al di là delle armi, che cosa è stata la Resistenza? C’erano sostanzialmente due tipi di partigiani.  I  più vecchi avevano una esperienza politica precedente, alcuni erano erano militanti, uomini duri, temprati dalla clandestinità  e dagli arresti negli anni del regime. Ma moltissimi erano giovani, militari sbandati che salirono in montagna in odio all’ex alleato tedesco, o renitenti alla leva che non volevano entrare nelle milizie di Salò.

Qualcuno di quelli più giovani c’è ancora, e ho avuto la fortuna di incontrarlo nel corso della mia attività di giornalista e documentarista  Hanno una cosa in comune: ricordano la Resistenza come un periodo straordinario, che li ha plasmati e ha forgiato le loro coscienze. Hanno la sensazione che in quel periodo, per la prima volta, non sono stati comparse in un mondo che li ignorava, ma protagonisti. Non sottovalutano la fame, le privazioni, il tanto sangue versato. Ma conservano nella memoria soprattutto i momenti belli vissuti a fianco dei compagni, le prove di coraggio in combattimento,  le lezioni degli anziani militanti antifascisti che li guidavano e seppero dare un senso politico alla loro ribellione. Hanno l’orgoglio di aver combattuto per qualcosa che andava oltre i destini e le aspirazioni dei singoli, e la serena consapevolezza di averlo fatto dalla parte giusta. Come scrisse uno dei loro comandanti in una lettera alla moglie “in questi mesi in montagna, in mezzo a tante battaglie e a tanti problemi da risolvere, mi sono certamente modificato, perché sono diventato severo con me stesso, e sento una responsabilità nuova, che mi indica in maniera chiara il mio lavoro futuro. Voglio fare qualcosa di buono nel mondo, ne ho ancora il tempo e qualche capacità”. Quel comandante era mio nonno, Battista Gardoncini, che fu catturato in Val di Lanzo e fucilato il 12 di ottobre del 1944 a Torino.

Di qui la mia terza riflessione. Accettare la lezione della Resistenza significa riconoscere che quel  desiderio di fare qualcosa di buono per cambiare il mondo apparteneva a una parte sola. Possiamo avere umana pietà per le vittime dell’altra parte. Possiamo riconoscere che in quei  giorni duri non ci furono soltanto eroismi e sacrifici, ma anche contrasti, opportunismi e qualche episodio a dir poco controverso. Possiamo essere più o meno critici sul corso preso dalle cose quando l’Italia del dopoguerra cercò faticosamente la sua strada in un mondo diviso in blocchi, e molte delle speranze suscitate dalla nascita della repubblica e dalla stesura di una Costituzione condivisa subirono una battuta d’arresto. Ma non dovremmo mai dimenticare che furono i partigiani, e non altri, a riscattare venti anni di dittatura, con la vergogna delle leggi razziali e dell’entrata in guerra a fianco della Germania nazista e dell’imperialismo giapponese.  

Ed ecco la quarta riflessione. Siamo un paese dalla memoria corta, che preferisce mentire a se stesso piuttosto che affrontare il peso dei suoi errori. Nel nostro comune sentire  i tedeschi sono sempre e soltanto gli “invasori”. Pochi ricordano che siamo stati al loro fianco in tutte le imprese più sciagurate, e che dopo l’armistizio dell’otto settembre del 1943 – in realtà una resa senza condizioni agli Alleati – furono sufficienti i pochi reparti tedeschi presenti in Italia per occupare un paese stremato, i cui vertici civili e militari preferirono darsi alla fuga anziché reagire. Ma ci sono tanti altri esempi. Abbiamo costruito il mito degli “Italiani brava gente” mentre in Africa ricorrevamo ai gas e alla fucilazioni di massa.  Onoriamo giustamente i nostri morti nelle foibe del Carso, ma ignoriamo gli oltre centomila deportati voluti dal  fascismo nei territori jugoslavi occupati, e i  crimini  di guerra che abbiamo commesso. Non a caso il primo a non voler riaprire la questione delle foibe, subito dopo la fine della guerra, era stato il presidente del consiglio Alcide De Gasperi, consapevole del fatto che l’Italia era un paese sconfitto, e che l’apertura di un processo avrebbe visto sul banco degli imputati molti dei nostri gerarchi e dei nostri generali.  

Anche la memoria della Resistenza, a suo modo, è selettiva, quasi a volerne esorcizzare i momenti più aspri e le contrapposizione ideologiche.  Lo si vede nelle  piccole cose, come la singolare correzione apportata al testo di una delle più belle canzoni partigiane, “Fischia il vento”.  L’autore, Felice Cascione, era un medico comunista ligure caduto in combattimento nel gennaio del 1944. Scrisse che i suoi partigiani andavano con le scarpe rotte a conquistare la “rossa” primavera e il sol dell’avvenire, e certo non avrebbe gradito la sostituzione troppe volte sentita  di  quel “rossa” con il più neutro “bella”. 

La quinta e ultima riflessione è molto personale. In occasioni come questa mi capita spesso di chiedermi che cosa avrei fatto io se fossi stato al posto di chi in quel periodo decise di battersi e di rischiare in prima persona. Penso soprattutto ai più anziani, a quelli che avrebbero potuto restarsene a casa e non lo fecero. Non era soltanto una questione di coraggio fisico. Entrare in clandestinità, salire in montagna, organizzare gli scioperi nelle fabbriche impegnate nello sforzo bellico, significava anche abbandonare la famiglia, o peggio ancora metterla in pericolo. Ci voleva una grandissima  determinazione e una grandissima consapevolezza della posta in gioco, in Italia e nel mondo.  Tutte cose che non  si improvvisano, e che hanno caratterizzato una generazione cresciuta nelle difficoltà e nei pericoli.

Guardiamo ai risultati ottenuti dalla  classe dirigente uscita dalla Resistenza. Guardiamo alla nostra costituzione, che è il frutto straordinario della collaborazione tra forze politiche di orientamento molto diverso, ma decise a mettere temporaneamente da parte le divergenze pur di ottenere un risultato utile al paese. Potevano non essere d’accordo sul tipo di società da costruire, ma sapevano che era necessario voltare pagina e ripartire da una base comune, democratica e solidamente antifascista. Erano persone di grande qualità. 

Sono passati molti anni. Oggi siamo in una situazione molto meno drammatica, abbiamo la fortuna di vivere in pace, e in un paese che resta nonostante tutto tra i più ricchi del mondo. Ma il mondo sta cambiando molto in fretta, e ci mette di fronte a problemi nuovi, su una scala che non è soltanto nazionale. Penso a fenomeni come la globalizzazione, i flussi migratori, il clima. La mia sensazione è che avremmo più che mai bisogno di una politica alta, fatta da persone con la stessa qualità, la stessa determinazione e la stessa volontà di operare per il bene comune che avevano i politici usciti dall’esperienza resistenziale. Ma all’orizzonte non mi pare che ce ne siano molti.

Battista Gardoncini

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