Vincenzo

Vincenzo Pasquali era un nostro amico da sempre. Nell’ambiente torinese della montagna lo conoscevano tutti, fin dai tempi di Gian Piero Motti, con cui si era spesso legato in cordata. Era stato un protagonista discreto e spesso silenzioso dell’alpinismo piemontese fin dagli anni ’70. A differenza di altri, infatti, Vincenzo preferiva non mettersi in mostra, non apparire. Faceva il fotografo, filmava, scriveva. Per la “Rivista della Montagna”, per “Alp”, e non solo. Molte delle fotografie più belle uscite in questi anni si devono alla sua sensibilità e alla sua capacità di vedere oltre. Se n’è andato qualche mese fa, senza che nessuno di noi trovasse il coraggio di prendere la penna in mano e raccontare di lui. C’è riuscito solo Marco, e anche lui dopo un sacco di tempo. Ma a Vincenzo, un pensiero come quello che vi proponiamo, lo dovevamo tutti. Davvero.

di Marco Pozzi* – Succede. Nei miei ricordi succede da sempre. Prima si trattava di un anziano parente che da un giorno all’altro spariva fra mormorii obliqui. Tu potevi ancora pensare che sarebbe stato come per quegli attori che morivano trafitti da frecce indiane ma poi rivedevi dopo pochi mesi in un altro film. Invece, quando hanno cominciato a sparire quelli che dividevano con te casa, parole e carezze, il vuoto diventava percepibile, capivi che non ci sarebbe stato un altro spettacolo. Capitava sempre quando eri a scuola, e ti venivano a prendere un’ora prima dell’uscita con lacrime appena asciugate.

Foto Vincenzo Pasquali - Courtesy Inge Schladen

Poi cresci e sai di essere immortale; se capita, è destinato agli altri. Ti tocca vivere in un periodo di grandi cambiamenti e sei tu che scegli sempre il gioco: i cortei, le osterie, la montagna, prima solo camminate poi alpinismo vero e proprio. “Chi vola vale, chi non vola è un vile”, aggiungi il rinnovamento dei costumi, un misto di sesso, droga e rock & roll, e ottieni un cocktail terribile.

Era come essere ancora in guerra, anche se la nostra era la generazione successiva. Da cinici, spaesati guerrieri si andava ai funerali di amici, conoscenti. Continuavi a sentir parlare di belle morti lassù tra rocce e nevi, ma le volte che eri andato a prenderne qualcuno non ti era sembrato che quella fosse una bella morte.

Poi cominci a pensare che non succederà più, se non per un naturale esaurimento delle personali autonomie. Cominci a ipotizzare uscite di scena più tradizionali: il letto, figli e nipoti attorno, gli occhi socchiusi, le lenzuola rimboccate sopra un corpo oramai quasi impercettibile.

Sai che questa è un’iconografia simile a quella della morte eroica e bella durante una sana competizione con l’alpe, ma le bugie bisogna coccolarle, alimentarle; se no, che bugie sono. Invece succede ancora e ancora: l’ultima valanga dell’anno, la prima cascata della stagione, la malattia illogica, imprevista, devastante. Come se questi aggettivi avessero un senso per cellule impazzite il cui lavoro è proprio distruggere e annichilire, e questo sanno farlo benissimo.

Infine è il tempo di Vincenzo, bello, ironico, innamorato dell’estetica che c’è nella vita, nel gesto dell’arrampicare, in una nuvola che nasconde una montagna, nel sorriso di una compagna. Occhio indagatore di piccoli microcosmi, fotografo per necessità propria. Uno sguardo curioso e dissacrante nei confronti dei grandi pensieri, delle lotte grandi, dei personaggi grandi per obbligo e vanità.

Tanti altri noi fa, c’eravamo incontrati quando avevamo ancora una piccola fama locale di discreti arrampicatori ma già avevamo deciso di rinunciare ad apparire di più scalando pareti sempre più difficili. Vincenzo aveva un misterioso impiego notturno, faceva il correttore di bozze alla redazione di un giornale; io, più prosaicamente, quando il mattino lui dormiva, insegnavo.  Ci si trovava sui massi erratici attorno a Torino a giocare a salire senza materassi, a inventare linee nuove, a provare quelle appena riuscite a Gian Carlo, Danilo, Gianni, Marco. Sicuramente ho scelto i compagni di cordata quasi come si cerca una fidanzata, di quelle importanti, con cui pensi di poter condividere un pezzo di vita.

Bisogna avere obiettivi condivisi, così come parole, musica. Per me non è mai stato possibile pensare a un compagno come a un socio di lavoro scelto in base alla disponibilità e il livello, giusto per occupare una domenica e aggiungere nuovi metri di roccia scalata ai chilometri già vinti. Con ogni compagno ho sviluppato modi diversi di scelte di arrampicata, dal cercare i risultati, all’esplorare nuove possibilità. Con Vincenzo avevamo in comune soprattutto la voglia e la capacità di rinunciare. Forse non molti possono considerarlo un pregio, ma si rinunciava alle salite in montagna perché si poteva arrivare tardi all’attacco per essersi fermati a guardare le luci di un torrente, giochi di nuvole, licheni colorati, o semplicemente perché non si aveva voglia di fare fatica.

Si poteva rinunciare ai tiri in falesia per troppo caldo, per il freddo, per gli appigli unti o troppo rugosi, o solo perché si aveva poca voglia; e tutto questo avveniva semplicemente senza rimpianti, perché comunque c’era sempre qualcosa d’altro e le giornate erano comunque piene. Forse si potrebbe pensare a coniglieria acuta; poteva anche esserlo, ma in una forma lieve che sui blocchi ci permetteva comunque di superare dei veri e propri highball, quelli che adesso si farebbero con più paratori e con pile di materassi. Oppure ci consentiva di salire le vie californiane della Val Grande senza materiale, perché tanto mi hanno detto che c’è tutto, e invece trovavi schiodato e insistevi lo stesso incastrando pietre e cordini annodati nelle fessure.

Una cosa a cui non si rinunciava era progettare un futuro possibile, per arrivare a intrecciare fantasie e mescolare il gioco al lavoro. Un futuro compatibile con noi così orgogliosi di una autonomia lavorativa e culturale.

Per lui è stato fare foto, documentari; per me gestire rifugi, accompagnare scolaresche a spasso per le montagne, e anche in queste scelte ho sempre allenato la capacità di rinunciare a dei clienti in più, a quelli che non ti piacciono, a fermarti anche sotto le piccole mete di un escursionismo scolastico perché ci sono camosci da vedere e annusare l’odore dei pini quando il sole batte e scalda il bosco.

Imparare a rinunciare non è facile, bisogna superare il desiderio di apparire, non assecondare le pulsioni di possesso che la nostra cultura ci impone, rinunciare non tanto per necessità (non posso permettermelo) quanto per scelta (non voglio permettermelo). Noi il bello l’abbiamo trovato negli intervalli dell’azione che il saper rinunciare ci ha concesso.

Infine vorrei poter esprimere il rispetto e l’ammirazione che ho provato per l’ultima scelta di Vincenzo. Tra una non vita che avrebbe portato all’incapacità di parlare, muoversi, mangiare e una fine rapida scelta nel tempo e nel modo. Ecco di nuovo scegliere la rinuncia, che ancora una volta non è togliere, negare; ma, al contrario, è la massima espressione del rispetto che ognuno dovrebbe a se e agli altri. Rinuncia come rispetto, come libertà di scelta.

* Marco Pozzi, alpinista, arrampicatore, accompagnatore naturalistico, gestisce il rifugio Levi-Molinari (1850 m), nel Comune di Exilles, in Val di Susa.

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