
Vi siete mai chiesti come dovevano essere i grandi massicci glaciali 80, 90 anni fa, prima che la fusione glaciale ne modificasse l’aspetto? L’unico modo per saperlo è quello di consultare i vecchi archivi fotografici degli alpinisti o la documentazione presente nei musei. Ma a volte anche i racconti degli scalatori posso aiutarci ad immaginare com’era una volta la montagna. E allora, proviamo a fare un salto indietro nel tempo.
Nell’estate del 1921, i fratelli Giuseppe e Giovanni Battista Gugliermina e Cichìn Ravelli – tre alpinisti che all’epoca rappresentavano un po’ l’élite dell’alpinismo “accademico” occidentale – giunsero sulla vetta del Monte Bianco dopo essere saliti lungo la cresta dell’Innominata. Al termine della salita, scesero lungo la cresta delle Bosses e bivaccarono alla capanna Vallot, con l’intenzione di scendere il giorno dopo in Val Veni e di rientrare quindi a Courmayeur. A quei tempi, come si sa, i ghiacciai erano un’altra cosa, assai diversa da ciò che oggi, a causa del riscaldamento generale del globo, ci è dato di vedere
Il racconto di quella discesa è contenuto nella parte finale del 12° capitolo del libro Vette, uscito negli anni ’30. La prosa di Giovanni Battista Gugliermina, come vedrete, è ancora quella aulica del Ventennio, ma lo stupore, la meraviglia e l’aleggiare del pericolo sul capo degli scalatori sono comunque capaci di trasportarci oltre le righe di quelle pagine ingiallite dal tempo.
«Il sole è già alto quando, il mattino del quarto dì dalla partenza dalla capanna Gamba, la nostra comitiva si profila sull’ampio dosso del Dôme du Goûter e a passo svelto scende per la magnifica cresta del Bionassay.
«Quando questa assume la massima pendenza, armiamo i piedi di ramponi e percorriamo con tutta sicurezza l’esilissimo tagliente, dal quale caliamo verso il ghiacciaio del Dôme. Una crepaccia spalancata ne difende l’accesso e ci obbliga a un lungo giro fin dove un ponte di ghiaccio a mezzo diroccato consente di entrare nella fessura e d’uscirne per l’opposta sponda.
«La via abituale si svolge per un buon tratto nel mezzo del ghiacciaio, appoggiando poi a destra in direzione del rifugio del Dôme. Ravelli l’ha già percorsa nel 1919 e viene prescelta, purtroppo senza considerare e riflettere sulle condizioni eccezionalmente sfavorevoli del ghiacciaio in questo anno. Così, allegramente di corsa, si arriva ai primi innocenti crepacci. Le cose all’inizio procedono bene, ma dopo alcune cordate di percorso cominciamo ad impigliarci in un groviglio di tali fenditure che a poco a poco, quasi senza avvedercene, ci sospinge sempre più lontani dalla direzione prefissata. Ci irretiamo poi in un labirinto di seracchi che dalla prima sorpresa ci fa passare al più ossessionante lavoro e da questo alla preoccupazione di non trovare più la via d’uscita. Sono ora muri altissimi che precludono ogni possibilità di passaggio, ora pendii quasi verticali ai quali ci abbandoniamo incerti, pur di guadagnare in discesa.
«Infiliamo crepaccie che attraversiamo in tutta la lunghezza per sbucare al di sopra di ciglioni strapiombanti da mettere i brividi… anche in mezzo a un ghiacciaio, oppure di fronte a caverne paurose e meravigliose ad un tempo, ampie come cattedrali, che danno un’impressione affannosa di instabilità, di rovina sicura al solo guardarle.
«Ricordo un momento dove, senza una soluzione d’uscita, sprofondati un una ristretta chiusa di blocchi giganteschi e di alte torri scricchiolanti, allettati dal riflesso luminoso uscente da una glauca buca, non esistiamo a incanalarci e a scomparire in essa. Ben ancorati, colle picche e coi ramponi e non senza faticosissima manovra, procedendo fra le sdrucciolevoli pareti azzurrognole, strisciamo sopra il buio d’un abisso profondo come l’eternità, accompagnati dal brontolio cavernoso d’un ruscello invisibile e dalle inquietanti contrazioni del ghiacciaio. Come Dio volle, lo stretto corridoio finì per allargarsi in una galleria dalla quale sbucammo all’aperto colla fortunata prospettiva di poter finalmente liberarci dalle strettoie del ghiacciaio ed uscire sulla sponda destra».
«Il tratto successivo è una cascata di ghiaccio terribilmente sconvolta.
«Siamo nelle ore più calde della giornata. Schianti, tonfi, sinfonie profonde di invisibili vene d’acqua che scorrono in abissi ignoti, di frane che si rovesciano nelle ampie cavità azzurrognole, sono i segni di vita e di rovina nell’immenso caos dell’abbagliante cascata. Con una discesa complicata usciamo sul ghiacciaio e attraverso alcuni seracchi abbordiamo il filone confluente. Sopra di noi è una selva di ghiaccioni, vere pertiche pencolanti. Ai nostri piedi una congerie di blocchi verdastri caduti di fresco non lasciano dubbi sulla natura pericolosa della via che dobbiamo seguire.
«D’altronde, altra soluzione non vediamo, non esitiamo quindi, e passando di corsa sotto la doccia nutrita delle corrose e pericolanti torri gelate, usciamo incolumi fuori dal tiro (…). Mezz’ora dopo apriamo la porta della capanna del Dôme. Il passaggio dal rifugio Vallot ci ha richiesto dieci ore!».