Come era facile prevedere, la riunione romana che avrebbe dovuto ricomporre i contrasti tra Milano e Torino sul Salone del Libro, mettendo in piedi un’unica manifestazione divisa tra le due città, è finita con una spaccatura. Avremo dunque due saloni, in date concomitanti e in aperta concorrenza. E forse tutto sommato per Torino è un bene. Perché la soluzione prospettata dal ministro Franceschini era fortemente penalizzante per la città che trent’anni fa aveva avuto l’indiscutibile merito di inventarsi una manifestazione nuova per l’Italia.
E adesso? Adesso, per dirla come l’ex sindaco Fassino, se i grandi editori vogliono farsi un salone tutto loro a Milano se lo facciano. Vedremo che cosa ne verrà fuori. Qui a Torino pensiamo ai fatti nostri, e cioè al salone che metteremo in piedi con chi vorrà starci, sperando che riesca un po’ meglio di quello ingloriosamente defunto poche settimane fa.
Perché il voltafaccia dei grandi editori è soltanto una delle cause di un fallimento annunciato da anni di mugugni, liti, errori di gestione e inchieste giudiziarie. La prima, e la più importante, è l’ambiguità di una formula che non è mai riuscita a trovare un vero equilibrio tra gli aspetti commerciali e quelli culturali, e ha sempre privilegiato i primi. E non è da trascurare neppure la tristezza dei luoghi, quei padiglioni del Lingotto privi di aria condizionata, ammorbati da calori animali e effluvi di paninoteche, impraticabili per le affollate comparsate degli intellettuali della tv, assordanti per gli schiamazzi di infelici e totalmente disinteressate scolaresche.
Difficile comunque non andarci, al salone. Ogni anno ti dicevi che saresti rimasto a casa, ma un dibattito, una presenza, una curiosità che ti costringevano a salire sulla metropolitana – quella sì comodissima – li trovavi sempre. Nonostante tutto.
Sono proprio quei dibattiti, quelle presenze e quelle curiosità che il nuovo salone di Torino dovrebbe privilegiare. Non al Lingotto, non per soli cinque giorni, e non necessariamente in un unico luogo. Torino è bella, ricca di monumenti, spazi espositivi, ritrovi. Portiamo gli editori rimasti, che tra l’altro, a giudicare dalle reazioni di questi giorni al diktat dei presunti grandi, sono anche i più innovativi, in mezzo alla gente. Invitiamo gli autori più interessanti, italiani e stranieri, e portiamo anche loro tra la gente, magari nelle sale di un museo o in un parco. Guardiamo con maggiore interesse ai protagonisti della rivoluzione digitale – non ha senso demonizzare Amazon – e a quello che accade nel resto del mondo. Cerchiamo i personaggi giusti, che autori ancora non sono, ma potrebbero diventarlo, e mettiamoli in contatto con gli editori, gli organizzatori culturali, il circuito dei festival, la scienza, l’industria. Rivolgiamoci alle università, che per quanto sinistrate dai tagli saranno sempre meglio del consiglio d’amministrazione della Mondazzoli.
Abbiamo speso milioni di euro per affittare una ex fabbrica rifiutata dai suoi proprietari e finita nelle mani di affaristi senza scrupoli, possiamo risparmiarli e spenderne una parte per coinvolgere nel lavoro di ideazione, oltre al benemerito personale della fondazione per il libro, le tante istituzioni e i centri culturali che operano in città. Non si tratta di partire da zero. Si tratta di usare il cervello, che in questi ultimi anni di spasmodica attenzione alle ragioni di bilancio si è un po’ arrugginito.
Dunque brindiamo al salone che verrà, come ha proposto una piccola libreria di Borgo Po, L’Ibrida Bottega, ai suoi affezionati clienti.
“Brindiamo: il supermercato del libro se ne va. Basta code chilometriche, biglietti d’ingresso a 12 euro, numeri gonfiati, Cracco e Parodi a fare le star, Mediaword a fare da sponsor, confusione e gigantismo. Va a Milano, anzi a Rho (la magnifica Rho…), perché la Mondazzoli così vuole e cosi farà. E Dio sia lodato, perché è l’occasione di fare piazza pulita e ricominciare con una proposta di qualità, dove si potrà ridare dignità al “core business”: la bella lettura. E la strada l’ha già indicata uno dei pochi visionari davvero tali, Carlin Petrini, che farà il suo Salone del gusto nel cuore della città, tra la gente. Se Comune e Regione riusciranno davvero a dialogare, se verranno coinvolte le figure centrali, come gli editori e gli autori di qualità, bibliotecari e insegnanti, librerie indipendenti, giovani scrittori e giovani attori, insomma se davvero ci sarà la volontà allora si potrà ricreare un modello unico: la Città del Libro. E voglio proprio vedere se Camilleri, o chi per lui, preferirà fare una presentazione in una sala al neon del padiglione di Rho o con lo sfondo di Palazzo Madama. Quindi non disperiamoci, riprendiamo a creare perché di questo siamo capaci“.