di Alfio Bessone – Si discuteva, l’altra sera, quassù in montagna, di turismo. Si diceva che, in una situazione di crisi come quella che stiamo attraversando, la nuova piega presa dal turismo potrebbe contribuire a far vivere la montagna. Non è più il tempo di viaggi esotici, constatava qualcuno, ma della riscoperta del “turismo di prossimità”. Non a caso, nel corso delle ultime estati, sono tornate ad aprirsi porte e finestre di case che sembravano destinate ad ammuffire, e le botteghe dei paesi hanno incrementato le vendite grazie alla presenza di gente che non si vedeva da molto tempo. A un certo momento, la chiacchierata si è fatta davvero interessante. Qualcuno, più lucido degli altri, ha spiegato che per la montagna il turismo può essere un’enorme risorsa, ma che può anche trasformarsi in una tragedia. Il soggiorno dei vacanzieri è risorsa che si deve imparare a gestire in maniera corretta, altrimenti può essere pericolosa. Difficile farlo capire agli adolescenti e ai ragazzi di vent’anni. Ma chi ha sulle spalle qualche stagione in più sa bene come, di fronte a un ritorno del turismo montano, possa gonfiarsi la bolla speculativa. L’effetto del marketing, nelle nostre valli, si è già visto in passato. In alcuni luoghi molti valligiani, che prima erano artigiani o imprenditori in proprio, liberi e indipendenti, hanno scoperto di essere diventati servi di un potere economico spietato.
Ormai, qui da noi ma anche in molte altre valli, la gente è consapevole che, se si vuol continuare a parlare di turismo, bisogna fare scelte diverse dal passato. Basta wellness, luna park, giochi e supermarket, che fanno sembrare le montagne tutte uguali, aree destinate a un divertimento di pura evasione e privo di contesto. Bisogna invece insistere sul concetto di diversità delle montagne. Proporre stili e modelli di vita diversi, la possibilità di provare esperienze nuove e reali, di esplorare alternative mai tentate in un mondo che non sia la copia di quello della città.
Il vecchio modello degli anni ’80 e ’90, spiegava un ragazzo che tutti i giorni continua a pendolare tra il lavoro in università e la vita del borgo, ha fatto il suo tempo. Le puntate mordi e fuggi in montagna ormai non interessano più. E allora perché non provare a lavorare su contenuti diversi, cucendo un ventaglio di proposte con cui ci si possa avvicinare a un universo in cui si intrecciano agricoltura, allevamento, paesaggio, tempo liberato, creatività. Insomma. le montagne potrebbero fornire una possibilità di salvezza dalla crisi di questi anni. Che non è solo una crisi economica, ma un fenomeno diffuso che fa emergere la vacuità di indirizzi di vita ormai senza senso. Le montagne (meglio usare la parola al plurale, perché non ha senso mettere sullo stesso piano Cervinia, Courmayeur o Cortina d’Ampezzo con le valli occitane, il Cadore o gli sperduti borghi appenninici), proprio per la compresenza di unitarietà e complessità, potrebbero diventare un ottimo laboratorio di differenti esperienze individuali e condivise
Davvero – e su questo ci siamo trovati tutti concordi – la scelta delle montagne può rappresentare un’opzione importante. Una decisione che presuppone la consapevolezza di accostarsi a un ambiente unico nel suo genere. Che può morire se l’uomo non lo preserva con il suo lavoro, ma che anche può cadere in rovina se l’uomo lo devasta e lo saccheggia. Questo per dire che il futuro delle terre alte dipende solo da scelte di volontà, di cultura e, più in generale, di civiltà. Ciò che conta davvero, quassù, è la capacità di ricollegarsi al senso delle esperienze che, nel corso delle generazioni, sono state favorire dal mondo verticale. In caso contrario, potrebbe essere impossibile comprendere quanto le montagne hanno ancora da offrire.
Chi vive di montagna è ben conscio che occorre favorire il riaffermarsi della biodiversità. E sa anche che si possono spalancare le porte all’innovazione. Ma bisogna essere capaci di cavalcarla, quest’ultima, senza far danni né modificare gli equilibri ambientali. Il paesaggio è un bene prezioso che fonde natura e storia. Solo al suo interno è possibile ripensare la montagna del futuro. In un ambiente ricostruito, “rifatto”, “normalizzato”, falsificato, colonizzato da immaginari esterni, ogni progetto sarebbe un falso.
1 comment
Condivido pienamente questo articolo! parlare di “montagne”, nella loro identità e peculariatà, creare opportunità che favoriscano la conoscenza delle diversità, spezzando la monocultura che vuole omologare tutto.
Per fare alcuni esempi, penso alla positiva e straordinaria esperienza di Ostana, a quello che da anni va predicando Annibale Salsa, alla semplicità delle trasmissioni I sentieri d’Italia di MIchele Dalla Palma su Marco Polo TV… bisogna stimolare il desiderio di conoscenza e riscoperta delle piccole realtà alpine, prima che queste spariscano del tutto e per chi non ha fantasia restano sempre i non luoghi: i centri commerciali, i villaggi turistici, ecc. ecc.