di Roberto Mantovani. «Più semplici rendiamo le cose, più ricca si fa l’esperienza». E ancora: «I miei giorni più appaganti sono stati quelli in cui ho sfrondato via tutto».
Sembrano aforismi di un anacoreta. Invece sono frammenti della filosofia di vivere di Steve House, classe 1970, di La Grande, cittadina del nord est dell’Oregon, in assoluto tra i più forti alpinisti d’alta quota del momento (Reinhold Messner dice che è il migliore). Fossero usciti dalla penna di un qualsiasi scalatore di casa nostra, sarebbero stati scambiati per le elucubrazioni del solito alpinista grafomane e cervellotico. Invece, amplificati dal contesto e dalla storia dell’autore, sono diventati un hub del pensiero d’una generazione. Quella che ha trasformato lo stile alpino in un dato di fatto, dovunque e comunque, anche alle altissime quote. E House, guida alpina e un diploma di laurea in scienze dell’ecologia, di montagne ne ha scalate tante. A partire da quelle della Slovenia, dove ha fatto le sue prime ascensioni a diciott’anni, durante un soggiorno di studi, per continuare con le cime e le pareti delle Rocky Mountains, con la roccia e il ghiaccio dell’Alaska, dell’Himalaya, del Karakorum. Dal Triglav al K7, dal McKinley al versante Rupal del Nanga Parbat, alla Nord del Mount Alberta. In cordata ma anche in solitaria
«Sono convinto che lo stile alpino in futuro si imporrà dovunque» ci ha raccontato Steve in una recente intervista, «per il semplice fatto che il grande impatto ambientale delle spedizioni alpinistiche tradizionali non è proprio più sostenibile. Se ogni gruppo di scalatori piazzasse corde fisse, allestisse campi alti e poi abbandonasse tutto sulla montagna, allora il futuro dell’alpinismo sarebbe davvero oscuro».
Tutto vero, ma come si fa a combattere contro lo scempio dei campi base, soprattutto i più affollati, quelli che stanno sotto gli 8000 ormai diventati un must, dove stile di salita, etica, pulizia e preoccupazioni ambientali sono ancora concetti vaghi?
«Bisognerebbe che tutti gli scalatori adottassero la politica di Leave no Trace (http://www.lnt.org/), una linea di comportamento che rappresenta ormai un requisito base per ottenere le sovvenzioni concesse alle spedizioni nel Nord America».
Lasciando da parte le processioni di alpinisti e portatori lungo le vie normali delle montagne più alte e famose, quel tipo di attività che Reinhold Messner chiama «himalaysmo da pista», come immagini l’alpinismo del prossimo futuro?
«Be’, gli scalatori sono un po’ tutti dei ricercatori. Gente che si lascia incantare dall’avventura, che ama sperimentare e indagare. Ognuno a suo modo, in maniera diversa. Ma io credo che in fondo tutti cerchino una relazione con l’ambiente montano, con i propri compagni di cordata, e soprattutto inseguano la conoscenza di se stessi. Il futuro dell’alpinismo sta sempre lì, in quelle cose».