di Roberto Mantovani – Quanti sono stati, nelle ultime due settimane, gli incidenti mortali capitati accanto alle piste da sci? Nove, dieci, undici? Abbiamo perso il conto. Ma non importa: l’argomento di questo post non ha bisogno di una contabilità esatta. E nemmeno di dettagli tecnici precisi.
Per cominciare, può essere utile ricordare il periodo in cui il “bollettino” degli incidenti ha cambiato cadenza: l’inizio delle vacanze natalizie e i giorni immediatamente successivi. Cosa che da un lato è più che comprensibile e si spiega con la voglia di neve, con il desiderio di evadere dal tran-tran giornaliero, con l’intenzione di dare un segno significativo ai giorni lontani dal lavoro o dallo studio. Ma va subito detto, ragionando “a bocce ferme”, che a inizio stagione la fretta non è una buona consigliera. Così si osa, e ci si butta. Magari senza avere la minima idea di cosa siano Artva, pala e sonda, di come si faccia una stratigrafia del manto nevoso o, peggio, di quanto possa essere stabile, in quel momento, un pendio innevato. E dire che nei giorni scorsi i bollettini delle valanghe indicavano pericolo elevato ovunque, e molti siti meteo avevano più volte allertato gli appassionati del fuori pista.
Chissà, magari l’inghippo sta proprio lì, nel termine fuori pista. Proviamo a pensarci: gran parte degli incidenti, infatti, sono capitati poco lontano dalle piste, e la maggior parte delle vittime non sono scialpinisti, ma sciatori da pista che si sono lasciati tentare da scorciatoie o da raccordi non battuti. Persone catturate dall’illusione che, rimanendo a pochi metri dai tracciati segnalati, non possa capitare nulla di pericoloso. Oppure utenti degli skilift convinti che le valanghe siano simili alle grandi colate di neve polverosa che di tanto in tanto si vedono al cinema e che si mettono in moto in base a chissà quali sortilegi. O ancora, sportivi incapaci di leggere le caratteristiche del terreno a prima vista.
Il più delle volte, il fatto che le vittime fossero abili sugli sci non c’entra nulla. Sciare bene non significa affatto sciare al sicuro. Anzi, a volte sono proprio le capacità tecniche a spingere la gente in luoghi infidi.
Per sciare fuori dalle piste, la buona tecnica non basta. Aiuta a prevenire le cadute e a godersi la discesa, a inanellare serpentine perfette, a divertirsi. Ma non garantisce la propria incolumità. Una volta, prima di buttarsi lungo un pendio di neve immacolata, si faceva gavetta seguendo le code di chi s’era fatto l’esperienza necessaria. Si imparava a conoscere a fondo la neve, a osservare le zone pericolose, a non tagliare zone poco sicure, a individuare (per quanto si riesce) la presenza di lastroni o di placche ventate. Gli adolescenti stavano dietro gli adulti, e quelli più anziani si facevano accompagnare da chi ne sapeva più loro. Adesso, appena si prende confidenza con gli attrezzi, cartelli di pericolo o no, si pretende di tuffarsi ovunque, pensando di riuscire comunque a cavarsela. Con il risultato che, più di una volta, ci ‘ infila in situazioni ad alto rischio.
Che fare? In questi giorni ne abbiamo sentite di tutti i colori. Repressione, multe, controlli… Tutta roba che, crediamo, serva a poco. Se c’è una cosa su cui invece è utile insistere, e che forse bisognerebbe rendere obbligatoria, è la formazione degli sciatori che intendono affrontare la neve fresca, abbracciare la filosofia del free ride o lo scialpinismo. Bisognerebbe anche incentivare le discese in compagnia delle guide alpine, gli unici professionisti abilitati a condurre i clienti lungo i percorsi non battuti. E soprattutto ascoltare i loro consigli, farne tesoro, e accumulare esperienza, imparare a rinunciare in caso di pericolo (i pendii non sono sempre pericolosi, e talvolta basta saper rimandare), e muoversi per proprio conto solo quando si sarà imparato molto di più in fatto di neve e valanghe. La montagna non è sempre per tutti, e con il pericolo non si scherza.