Ha suscitato un vivace dibattito l’articolo di Carlo Crovella su “Scialpinismo senza più poesia”. E insieme ai commenti ci è arrivato anche un articolo di un’altra nostra collaboratrice, Elisa de Marchi.
Come tanti ex-giovani, anche io ho il difetto di riferirmi alle esperienze passate, ad un modo di pensare e a scelte che sono inevitabilmente mutate, condivise solo con altri coetanei e con un velo di nostalgia.
Erano altri tempi, gli anni ’70, dopo tutto è cambiato. Oggi nello scegliere lo sci come sport si cerca subito il meglio: una buona, quando non la migliore, attrezzatura, un maestro di sci fin dai primi passi, per sé e i propri figli fin dalla più tenera età. Ma anche chi inizia tardi può essere catturato dalla frenesia della velocità della discesa in pista. Dopo si approda, per ragioni di varia natura, allo sci-alpinismo, ed essendo ormai “esperti sciatori” è facile credere che poco cambi passando fuori pista, che sia la montagna a dover cambiare, e non l’uomo.
Lo sci-alpinismo del passato, invece era una scelta vera e propria, spesso considerata in antitesi con lo sci “di discesa”. Nasceva come un elogio della lentezza, del silenzio immacolato dei monti. Era il coraggio della fatica del salire, dei risvegli prima dell’alba, ripagati dalla scoperta dell’ambiente-montagna nel suo complesso, dove si annusava l’aria come un meteorologo o come un animale selvatico, percependo gli odori, i colori dei diversi momenti della giornata, il mutare dei pendii e della vegetazione, dopo aver incontrato giù a valle chi la montagna la viveva quotidianamente.
La salita era la vera nuova esperienza di vita, la discesa era tutta da scoprire, bisognava adattarsi alle condizioni e ai terreni più diversi e pian piano si imparava.
Chi già sapeva sciare iscrivendosi ad un corso di sci-alpinismo pensava di imparare nuove tecniche, ma soprattutto cercava un gruppo di persone con gli stessi interessi dove ognuno era maestro degli altri. Non si sognava, in neve fresca, la velocità della pista, ma si seguivano altre motivazioni, si guardava ammirati alle belle curve “pittate” sul pendio da quelli più bravi. Si voleva imparare come “galleggiare” in tutta quella neve fresca, soffice, la tanto desiderata “farina”, quella che si trovava in pochissime e fredde gite invernali. Si imparava con tutto l’entusiasmo della giovinezza. Si cercava quello stile, che sarebbe rimasto nelle gambe e nella memoria motoria.
Il problema della sicurezza era gestito dai responsabili con una attenta e meticolosa organizzazione del corso, con regole facili ma rigide, con un preciso rispetto della complessità e la previsione delle difficoltà, dei rischi e dei possibili pericoli. Con umiltà e prudenza, utilizzando i mezzi di allora, senza delegare alla fredda burocrazia. Unione e puntualità. Ricordo ancora: alle ore tredici esatte scattava l’urlo del capo-gita: “Devallare!! Riunire i gruppi! Devallare!!”