di Renato Scagliola – I ghiacciai sono in ritirata in tutto il mondo, e anche sulle Alpi come si sa. In cent’anni ne sono spariti la metà. Una Caporetto. Si sciolgono piano piano, vaporizzano, si rifugiano sempre più indietro, come per scappare all’insù, non solo perché fa più caldo, ma perché disgustati da pestilenze aeree e da tutto quello che sale dalla pianura. Come un eremita che deve lasciare il suo ritiro perché hanno fatto una strada che arriva fino ai suoi silenzi, e questi sono lordati e fatti strame dalle quattro ruote motrici e dagli allegri gitanti a bordo.
Il vecchio ghiacciaio, di professione ambientalista, con fissa dimora, segni particolari rughe profonde dette crepacci, carattere meditativo, studioso di astronomia perchè vicino al cielo, s’indigna, si contorce, gratta e strofina fino a farli sanguinare i fianchi vallivi che contengono il suo corpaccio in agonia, che scricchiola e si rompe, e inghiotte assiderandoli, incauti camminatori. Piccole vendette, estrema difesa di chi è con le spalle al muro. E ha la voce roca se canticchia, strisciando sul suo letto ghiaioso: “Ahi morena, que linda morena…”, come quando era nella Sierra. Ricorda quand’era giovane, pieno di forze, e avanzava di pochi centimetri al giorno, e cresceva con giudizio, accumulando tesori di neve d’inverno, contento di bufere e tormente, resistendo senza fatica alle peggiori canicole estive, giacendo pacifico e pacioccone nel suo circo glaciale, contemplando le sue membra colossali scendere a valle striate di terre e sassi, una specie di fiume immobile in apparenza, ma vivo e potente. E non poteva credere che il suo rinsecchirsi fino a un rigagnolo gelato, era dovuto all’attivismo di quegli ometti microscopici delle pianure, che ogni tanto arrivavano perfino, con vestiti di tutti i colori e ridicoli bastoni rostrati, a solleticargli l’ombelico , sfrontati, ignari. Dalla bocca terminale escono gorgogli come di catarro, ed acque di fusione biancastre, sintomo di poca salute, fiotti di sassi, piccoli detriti e schegge litiche vomitate dopo una digestione infinita. Ed è sintomatico che il termine del ghiacciaio si chiami lingua, visto che ne ha la forma, e che quindi renda l’immagine di uno sberleffo, di una linguaccia, appunto come fanno i bambini e qualche volta i grandi.
Questi freddi, immani anacoreti glaciali, vecchioni senza religione apparente, quindi immuni da integralismi, cresciuti per millenni in pace, le ciglia aggrottate di licheni, si sono spaventati, non avrebbero mai immaginato una fine così malinconica, e si sono rattrappiti, liberando steppe e deserti morenici e valli ondulate di rocce montonate, su cui – ma è un incanto di origini perverse – è un piacere camminare calpestando lisce o scabre superfici rimaste nascoste dai tempi di Noè.
Verranno tempi che il ghiaccio di montagna non esisterà più, i bambini lo conosceranno solo sui campi di pattinaggio e nel frigo di casa, e neanche i nonni, nati e vissuti nelle pianure surriscaldate, ne avranno più memoria. Nei territori liberati dalla pesante copertura gelata, ormai savane pelate e secche, arrivano minuscole forme volanti di vita – a bordo di velenose correnti termiche – a colonizzare le nuove terre emerse: coleotteri, farfalline gialle bighellone, coccinelle piene di punti neri, e poi ditteri, mosche, mosconi, moschini, magari con la sciarpa e il passamontagna. Poi a piedi, step by step da oltre frontiera, scorpioni neri e scolopendre a righe, ragnetti di cantina e salamandre tatuate in cerca di nuove avventure e accoppiamenti arditi nell’aria rarefatta.
E tutti, – trattandosi di feroci invasori e cacciatori – si mangiano l’un l’altro, perchè mancano altre pietanze in loco. Una nuova barbarie selvaggia oltre i duemila metri ,che produrrà chissà cosa nei secoli. Forse una nuova specie di mammut con gli scarponi. Forse un arzillo abominevole uomo delle nevi, finalmente uscito dalle sue leggende himalayane, e che si metterà a prendere il sole tutto nudo, sulle arse, nuove praterie d’alta quota.