Il mondo dei vinti

di Margherita Griglio – «Quello che più mi faceva, che mi fa, arrabbiare è che era gente in gamba, professionisti nei loro lavori che hanno consentito, sviluppato, la vita per secoli in un mondo difficile come quello della montagna. Gente così, di grande esperienza e capacità, è finita a fare il manovale nelle industrie delle pianura».

Si indignava Nuto Revelli, partigiano e scrittore di Cuneo (1919-2004) pensando alla fine della montagna, all’esodo della sua gente dalle vallate, al bosco che cancella scuole, chiese e borgate: una storia che lui aveva raccontato benissimo, con una verità che diventa crudele, nel libro Il mondo dei vinti pubblicato 35 anni fa da Einaudi. Una ricerca antropologica attenta e puntuale con il magnetofono portato di casa in casa, di baita in baita per registrare impressioni, storie, speranze che non avevano più fiato. Già allora, nel 1977: gli ultimi anni prima della débacle, ampiamente annunciata.

Oggi che significato hanno quelle pagine, quelle affermazioni, annotazioni? Il mondo dei vinti è ancora vinto – anzi più che vinto, distrutto – oppure c’è qualche nuova speranza? Se ne è parlato sabato 31 marzo a Cuneo in un convegno promosso dalla fondazione intitolata a Nuto Revelli e presieduta dal figlio, Marco, con l’Uncem, l’Unione dei comuni e delle comunità montane. Con Marco Revelli, sociologo, si sono confrontati Enrico Borghi, presidente dell’Uncem, Lido Riba, presidente dell’Uncem Piemonte, Laurana Lajolo dell’Istituto Storico della Resistenza di Asti e Mario Cordero dell’Icom.

Certo, la fotografia delle vallate è sempre sconsolante ma non mancano segni, anche forti, di speranza, di reazione, di volontà. Quasi sempre opera di singoli, di famiglie, che hanno scelto di continuare a vivere – o di tornare a vivere – in montagna o addirittura di salire nelle valli senza avere un pedigree di  montanaro, scommettendo sul futuro. Gente spesso sola – si è detto nel convegno – alla quale né la politica né le istituzioni (banche comprese) danno aiuto, credito.

Ma qualcosa, pian piano, sembra cambiare. E così l’operazione di acquisto e restauro della borgata di Paraloup, da parte della Fondazione Revelli, diventa un esempio significativo di intervento pubblico. Ma anche una sfida, una provocazione.

Paraloup (“rifugio dai lupi” nel dialetto patois) è la più alta borgata del comune di Rittana, 1360 m, in Valle Stura. Qui, dopo l’8 settembre del 1943, si formò la prima banda partigiana di G.L., “Italia libera”, con Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca. E Nuto Revelli.

Dopo anni di abbandono e rovina, Paraloup ha ripreso vita: le baite sono state restaurate con nuove tecnologie, rispettandone comunque l’anima, e il paese – almeno d’estate – è ricco di attività e di gente. Mostre (dal 14 aprile, Il popolo che manca, a cura di Diego Mometti, Andrea Fenoglio e Giorgina Bertolino), caseificio, agriturismo, campeggio.

Certo, c’è voluto il denaro pubblico per ridare fiato, ma è su queste opere che si vuole indirizzare il denaro pubblico così da ridare vita ed economia a luoghi di grande potenzialità. Che, comunque, rappresentano la metà del nostro territorio nazionale. Meglio investire qui, hanno detto tutti, con intelligenza in realizzazioni mirate piuttosto che sperperare in opere “grandi” solo sulla carta. La “green economy”, ha detto ad esempio Enrico Borghi, può nascere e svilupparsi proprio sulle montagne, con i nipoti di quel mondo vinto che venne fotografato – benissimo – da Nuto.

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