Abitudine all’alta quota o regalo della genetica? Gli sherpa e i tibetani degli altipiani hanno davvero qualcosa in più rispetto alle altre popolazioni asiatiche che abitano ad altitudini trascurabili? E come mai in alta montagna ci è capitato di vedere sherpa, da tempo residenti a Kathmandu, che accusavano anch’essi i disagi legati dalla diminuzione della pressione atmosferica? (Va però detto che, dopo il necessario periodo di acclimatamento, gli sherpa rispondono meglio degli altri alla nuova situazione ambientale). Della questione si discute da tempo, ma finora non si era mai trovata una risposta certa.
Di recente, uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Chicago e della Case Western Reserve University, e pubblicato il 10 febbraio scorso sul giornale on-line Nature Communications, potrebbe aver risolto l’arcano. Secondo l’équipe scientifica, coordinata dall’italiana Anna De Rienzo, la predisposizione all’alta quota di tibetani e sherpa risiederebbe in un gene vecchio di 30.000 anni e in un altro più recente.
Gli scienziati hanno ricostruito l’evoluzione del Dna delle popolazioni tibetane individuando la prima mutazione genetica, intercorsa nella remota antichità, che ha permesso agli uomini di adattarsi ad ambienti con bassi livelli di ossigeno. I responsabili dei vantaggi biologici dei tibetani sarebbero gli sherpa mescolatisi alle popolazioni limitrofe.
I geni a cui si deve l’adattamento alle alte quote delle attuali popolazioni del Tibet e dell’Himalaya, spiegano i ricercatori, sono però due: Egln1 ed Epas1, due varianti, comparse in epoche diverse. Entrambi permettono al corpo umano di adattarsi alle condizioni riscontrabili sopra i quattromila metri di altitudine, in regioni considerate a rischio per le altre popolazioni del continente.
Per ricostruire l’evoluzione del Dna delle popolazioni di alta quota, i ricercatori hanno analizzato il genoma di 96 tibetani, tra cui 69 sherpa (etnia imparentata con i tibetani ma attualmente residente in Nepal) e l’hanno confrontato con i dati relativi a popolazioni indiane, centro-asiatiche e siberiane. E così sono riusciti a scoprire l’esistenza delle due varianti.
La Di Rienzo ha spiegato che il Dna degli attuali tibetani deriva dalla fusione di due antichi genomi: «Uno dalla popolazione dei primi migrati alle alte quote e adattato all’ambiente; l’altro dalle più recenti migrazioni dalle zone più basse e che ha acquisito attraverso gli incroci». Per comprendere l’affermazione della scienziata, bisogna pensare che l’attuale popolazione tibetana non è ormai più quella di un tempo. Deriva da un rimescolamento tra l’etnia sherpa, che aveva colonizzato l’altopiano più di 30.000 anni fa (a sostenerlo sono gli archeologi), e le popolazioni Han, giunte in Tibet in un’epoca assai più recente.
Per essere più precisi: dal complesso di dati esaminati, che hanno incluso l’esame del Dna mitocondriale e quello del cromosoma Y, risulta che il genoma tibetano attuale deriverebbe dal rimescolamento di due pool genici ancestrali, quello sherpa e quello dei cinesi han. Il primo pool è dovuto a una popolazione migrata in tempi remoti ad alta quota, e adattatasi al nuovo ambiente; l’altro alla migrazione in epoca più recente di un gruppo han originario dei bassopiani, che attraverso gli incroci ha acquisito gli alleli vantaggiosi dalla popolazione preesistente. Da questo incrocio hanno avuto origine quelli che noi oggi chiamiamo tibetani e che risalgono a 3000 anni fa.