di Victor Serge.
Per chi vuole capire la Patagonia, le sue montagne, la sua gente, il libro giusto è l’ “Ultimo confine del mondo. Viaggio nella Terra del Fuoco”, pubblicato in Italia da Einaudi.
E. Lucas Bridges lo ha scritto nel 1947, raccontando la straordinaria avventura della sua famiglia a partire dal 1871, quando il padre Thomas e la madre Mary sbarcarono nella baia di Ushuaia, all’estremo sud della Patagonia. Un angolo di mondo dove l’uomo bianco non aveva mai vissuto. Lui era un missionario. Lei, che lo aveva sposato in Inghilterra, aveva deciso di accompagnarlo, e aveva svernato alle Falkland mentre il marito preparava l’ultimo trasferimento. Gli aveva già dato una figlia, gli altri sarebbero nati a Ushuaia.
Scoprire un mondo è un privilegio raro, che si paga a caro prezzo. Per i Bridges la vita in una natura incontaminata, resa aliena da un clima durissimo, non fu facile. Ma l’isolamento, la fatica e i pericoli non li piegarono. L’incontro con i nativi, che avevano assassinato i loro predecessori, fu decisivo perchè basato sulla reciproca comprensione. Il dizionario dove Thomas Bridges raccolse trentaduemila vocaboli della lingua yamanà, oggi conservato al British Museum, è una toccante testimonianza del potere della parola. E certo non fu colpa dei Bridges se i bianchi arrivati dopo di loro portarono alle tribù patagoniche l’alcol, le violenze e le epidemie che le distrussero.
Lucas e i suoi fratelli crebbero con gli indigeni. Con loro condivisero una vita errante nei boschi, cacciando il guanaco e dormendo abbracciati nella neve durante l’esplorazione di sempre nuovi territori. Si confrontarono in lotte rituali che duravano ore. Furono coinvolti negli scontri tribali, negli agguati, nelle uccisioni, nei rapimenti delle donne, senza avere mai la tentazione di giudicare dall’alto della presunta superiorità culturale dell’uomo bianco. Introdussero l’ agricoltura e l’allevamento del bestiame, ma non ne imposero le regole a chi era e sarebbe per sempre rimasto un nomade. Erano spinti da un grande fervore missionario, ma non battezzarono nessuno che non lo volesse, e considerarono un grandissimo onore l’ammissione alle società segrete degli indigeni. Sfamavano gli ospiti quando potevano, e quando potevano curavano gli ammalati. Ma accettavano le regole di un mondo dove era sempre la natura ad avere l’ultima parola, senza badare al colore della pelle.
Nel 1887 Thomas Bridges abbandonò la missione e scelse la vita del colono, fondando a pochi chilometri da Ushuaia l’Estancia Harberton. Dopo la sua morte i figli edificarono più a nord l’Estancia Viamonte. E’ attorno a questi due luoghi che per quasi cinquanta anni si dipanano le avventure dei Bridges e delle loro famiglie. E che avventure. Ecco le fughe dei detenuti dal carcere di Ushuaia, i naufraghi salvati dalla furia dell’oceano, i cercatori d’oro disposti a tutto. Ecco i grandi latifondisti alcolizzati che uccidevano gli indigeni perchè “per loro è meglio così”, ecco i viaggi a Buenos Aires per ottenere dal governo argentino la proprietà delle terre faticosamente recintate per l’allevamento delle pecore. E, con le pecore, ecco i cani e i cavalli per radunarle, i capannoni per la tosatura, le gare e le risse tra i tosatori indigeni e i disperati che arrivavano dall’Europa in cerca di fortuna.
Harberton e Viamonte esistono ancora, e possono essere visitate con gli agi del turista. Ma basta spostarsi di pochi metri per entrare in un bosco selvaggio. Lì, al riparo dell’onnipresente vento patagonico, si può tornare indietro nel tempo, e ripensare a Lucas Bridges e al suo mondo.