di Victor Serge.
Non è difficile salire i 348 metri di Uluru, il monolite rosso che sorge dal nulla del deserto australiano. Per i visitatori dal piede malfermo ci sono comode catene, e tracce di vernice bianca che indicano il percorso. Ma per gli aborigeni, che sono tornati in possesso della loro montagna soltanto nel 1985, la salita è una profanazione, un prezzo da pagare al turismo di massa che alimenta l’economia della zona. E mal tollerate sono perfino le foto ricordo, che bianchi ben pasciuti scattano a ripetizione nella folle speranza di portarsi a casa un pezzo della magia del luogo.
Ho sempre desiderato vederlo, quel monolite che è soltanto la punta emersa di una enorme piramide sotterranea, costituita in gran parte di arenaria dal caratteristico colore rossastro. A giugno ci andrò. Come tutti alloggerò negli alberghi della zona, e mi sveglierò all’alba per seguire – tempo permettendo – il gioco dei raggi del sole sulla pietra, che sotto i miei occhi si trasformerà in un caleidoscopio di colori. Un affascinante spettacolo naturale, unico al mondo. So già che non resisterò alla tentazione di scattare. Ma la salita no. Non la farò. Non per rispettare la volontà degli aborigeni, ma per me stesso.
E’ passato il tempo in cui le montagne si conquistavano, magari con spedizioni nazionali decise a piantare in vetta una ridicola bandiera. Oggi si può salire per sport, per divertimento, per mestiere, per soddisfazione personale. Ma si può anche decidere di restare in basso, ai piedi della montagna, per cercare di capirla un po’ meglio con l’aiuto di quel po’ di storia che ci è dato conoscere.
Uluru, geologicamente parlando, ha seicento milioni di anni. Le tracce dei più antichi insediamenti umani nella zona risalgono a diecimila anni fa. Il primo non aborigeno ad avvistarla fu l’esploratore Ernest Giles, nel 1872. Ayers Rock fu il nome che le venne dato un anno dopo da William Gosse in onore di un governatore dello stato. Uluru, il nome indigeno, che probabilmente significa “strano”, venne dimenticato fino al 1985, quando fu stipulato un accordo che prevedeva il ritorno del monolite nella disponibilità dei nativi, con la cessione dei diritti di sfruttamento turistico in cambio dell’equivalente di poche migliaia di euro all’anno. E sono le guide native ad accompagnare i turisti attorno alla montagna, lungo un sentiero di una decina di chilometri che consente di capire qualcosa delle sue forme e delle sue caratteristiche. Qualcosa, ma non tutto, perché alcune zone vietate aiutano a mantenere quel mistero che è parte integrante del suo fascino.