di Roberto Mantovani – L’evento alpinistico più bello dell’anno? Come al solito, è difficile dirlo. Sono troppe le variabili che concorrono a formare un giudizio. E poi è sempre difficile fare paragoni tra due ascensioni che non sono state portate a termine su terreni identici. Come si fa, ad esempio, a mettere sullo stesso piano due vie nuove, anche molto difficili, ma tracciate a quote sensibilmente diverse?
Facciamo così: limitiamoci all’alta quota himalayana. E lassù, nell’aria sottile che si espande tra i sette e gli ottomila metri, ci pare che vada senz’altro ricordata una scalata pressoché unica nel suo genere. La prima cavalcata della cresta Mazeno al Nanga Parbat (8125 m), la nona montagna più alta della Terra, in Pakistan, con arrivo sulla vetta più alta del massiccio e discesa lungo il versante Diamir. La Mazeno, considerata la cresta più lunga del mondo (la foto di apertura è di Doug Scott), separa il versante nord ovest della montagna, cioè il Diamir, dalla parete sud est, detta anche Rupal. La grande course himalayana, conclusasi sulla vetta del Nanga Parbat la sera del 15 luglio, reca la firma dello scozzese Sandy Allan, 57 anni, e quella dell’inglese Rick Allen, più anziano di un paio d’anni.

Il 2 luglio, per affrontare i 10 chilometri della cresta, dal campo base erano partiti in sei: Sandy Allan, Rick Allen, la sudafricana Cathy O’Dowd e gli Sherpa Nuru, Rangduk e Zarok. Nove giorni più tardi, dopo aver superato tutte le cime della cresta, i continui saliscendi del crinale e i suoi infiniti pinnacoli, il percorso di cresta è terminato. Tre tweet in successione, postati per errore, hanno annunciato la vetta. Ma si è trattato una bufala. O’Dowd e Nuru sono tornati al campo a 7200 m, e il 12 luglio gli altri hanno tentato la vetta. Sono saliti fino a quota 7950, poi hanno fatto dietro-front. Il giorno dopo, Cathy e gli sherpa hanno imboccato la via del campo base, scendendo lungo il versante Diamir. Allan e Allen, invece, hanno deciso di ritentare. Un’imprudenza? Erano rimasti senza viveri, con poco gas e senza fiammiferi.
Il 16 luglio i primi quattro sono arrivati al campo base e successivamente sono scesi a Chilas. Un giorno prima, però, la cordata di punta ha toccato la vetta del Nanga. A quel punto è cominciata l’ultima fase della vicenda, la più drammatica e sofferta. Dopo una discesa senza fine, privi di acqua e di cibo, Sandy e Rick sono riusciti ad arrivare al campo base alle 23 del 19 luglio, 18 giorni dopo la loro partenza. Avevano contato di divallare lungo il versante Diamir in un giorno e mezzo, sperando nell’aiuto delle corde fisse lasciate da altre spedizioni. In realtà, la discesa ha richiesto un tempo più che doppio ed è stata una lotta per la sopravvivenza. Per fortuna, tutto è finito bene.
Va ricordato che la grande course del Nanga Parbat ha però un precedente importante, che è impossibile non citare. Dal 12 al 18 agosto del 2004, gli yankee Doug Chabot e Steve Swenson percorsero infatti la cresta scalando in prima ascensione le vette 7060, 7120 (il Mazeno Peak), 7100 e 7070. Giunsero fino al punto d’incontro con la via Schell, a quota 6940 da dove (Swenson non era più in buone condizioni di salute), anziché affrontare la sommità principale del Nanga, scesero a valle lungo il versante meridionale.
Da sua, inoltre, Allan, conosceva già il Nanga Parbat per aver salito e sceso il versante Diamir. Ma l’esperienza di due anni fa non è stata sufficiente a pianificare in modo corretto la scalata dello scorso luglio. In un intervista al “Guardian”, lo scozzese ha spiegato: «Non pensavamo che ci sarebbero voluti 18 giorni. Ho creduto che, giunti sulla vetta, saremmo tornati al campo base in un giorno e mezzo. Invece abbiamo trascorso tre notti lungo la via di discesa». «Al momento di scendere» ha detto ancora Allen, «Cathy ci ha lasciato il telefono satellitare. Abbiamo avuto una carica sufficiente per tre chiamate. Ero molto preoccupato per la discesa. Rick era molto stanco. Ho chiamato il nostro agente per verificare se, in caso di guai, ci fosse stata la possibilità di avere a disposizione un elicottero. Rick, sentita la chiamata, ha radunato le sue ultime forze. Lui è una persona dura e determinata. Ma era molto stanco, si fermava a riposare ogni pochi minuti, si è addormentato due volte. L’ultimo tratto di discesa, che avremmo dovuto percorrere in 3-4 ore, ci ha portato via tutta la giornata. Siamo rientrati al campo base alle 23».
Tra quanti hanno applaudito la lunga galoppata dei due britannici, Doug Scott ha parlato di un «risultato incredibile». Altri hanno paragonato l’evento di luglio alle più grandi scalate britanniche.
Altri ancora, come Simone Moro, hanno sottolineato i grandi rischi a cui si sono dovuti esporre Allan e Allen. In una recente intervista, riferendosi al percorso della Mazeno Ridge, Moro ha parlato di alpinismo «one way ticket», con biglietto di sola andata. «Grandissima impresa» ha spiegato, «ma per quanto mi riguarda penso di non essere interessato a un’attività in cui i coefficienti di rischio siano così alti. È stata una scalata condotta sul filo del limite. Letteralmente. Se quando sei lassù il tempo volge al brutto… Penso sia stata un’impresa del futuro portata però a termine con lo stile del passato. Stare lassù quindici giorni… No. Il rischio è altissimo. Per avere margini di sicurezza, a quelle quote bisognerebbe essere veloci come lo svizzero Ueli Steck».