di Victor Serge – Raccontiamo la montagna, noi di Segnavia 54. E oggi, nel giorno della memoria, vogliamo raccontarla da un punto di vista particolare, quello di un partigiano ebreo che in montagna salì, insieme a tanti altri, per difendere la sua e la nostra libertà, trovandovi la morte.
Emanuele Artom, nato nel 1915, veniva da una colta famiglia della borghesia ebraica torinese e dedicò tutta la sua breve vita agli studi. Era di gracile costituzione, e non era avvezzo ai disagi. Ma fece la sua parte, prima tra i garibaldini, poi con le formazioni vicine al partito d’azione che operavano in Val Pellice, dove svolse il ruolo di commissario politico. Combatteva, e si spostava da una formazione all’altra per spiegare le ragioni e gli scopi della lotta di liberazione, che per lui era in primo luogo una lotta per preparare il futuro democratico del Paese. Nel marzo del 1944, nel corso di un grande rastrellamento, fu catturato e riconosciuto come ebreo. Sottoposto a terribili torture, venne trasportato alle carceri Nuove di Torino, dove morì il 7 aprile del 1944. I carcerieri costrinsero due detenuti a seppellire il suo corpo sulle rive del Sangone.
Dopo la guerra il luogo della sepoltura di Emanuele Artom fu cercato invano. Ma di lui è rimasto un diario che nel 2008 è stato integralmente pubblicato da Bollati Boringhieri con il titolo “Diari di un partigiano ebreo”, e costituisce uno straordinario documento degli anni della guerra e della Resistenza. Duro, aspro, pieno di contraddizioni e di tormenti, il diario dà una rappresentazione immediata, senza abbellimenti retorici, della vita di una piccola banda. E proprio per questo merita di essere letto oggi nel giorno della memoria.
Ecco che cosa scrive Artom il 9 dicembre del 1943:
Questa fu una giornata di sistemazione nella nuova sede. Mi procurai inchiostro e zucchero, ebbi in regalo un bel pezzo di cioccolato e, per la prima volta in vita mia, mi comprai una scopa: 15 lire. Uscendo commisi due gravi imprudenze. Non nascosi le carte e non chiusi la porta. Così rabbrividii quando, tornato a casa, la trovai spalancata e mi sentii svenire non trovando un documento della massima segretezza: l’elenco dei banditi coi nomi veri. Mezz’ora di profonda disperazione, tanto più che la lampada a petrolio non faceva luce. Fregavo i fiammiferi tremando, ma, siccome sono poco abituato, li rompevo senza accenderli; quando dopo 2 o 3 tentativi, ne avevo acceso uno, la lampada restava spenta. Allora ebbi un’idea: alzai un po’ lo stoppino e subito venne una bella fiamma. Allora ripresi la ricerca con maggior calma e rinvenni la carta, ma d’ora in poi dovrò essere più ordinato. Mi preparavo il discorso per confessare la perdita al comandante, ma comprendevo di non avere scuse; pensavo alle conseguenze per tutti e prevedevo che stanotte i Tedeschi sarebbero venuti a prendermi e mi avrebbero torturato. Mi proponevo di dir loro: sono Ebreo e non ho ideali politici, se salvate i miei genitori, vi aiuterò. Poi avrei cercato di riferire al comandante tutto quello che essi mi avrebbero fatto sapere: piani delirici in una mezz’ora di angoscia. Appena ebbi trovato l’elenco fui subito un altro: allegro e sereno non come prima, ma, naturalmente, molto di più. Scrissi a macchina certe dichiarazioni che dovevo fare. Ho trovato il modo di farmi fare qui il pane con la farina che mi procurerà la banda e così mi renderò sempre più autonomo: questa è la necessità di ogni base, perché tutto funzioni bene e senza complicazioni. I problemi della vita quotidiana mi diventano sempre più semplici: fra quindici giorni sarò abile come quelli che sono sempre vissuti nei lavori pratici e casalinghi, che, in un mese e mezzo, non imparerebbero però nemmeno una piccola parte di ciò che so io. Ecco la differenza fra intellettuali e operai.
E ancora, qualche settimana prima:
La vita di un bandito è molto complicata e succedono infiniti incidenti. Per esempio ieri tre: avevo scritto di un aviatore Guerraz che minacciò colla rivoltella un ragazzo perché era stato asportato un ritratto di Muti. Nella notte cercarono di ucciderlo, senza riuscirci, ma poi si rifugiò presso i carabinieri con tanta paura che ha promesso che se lo si lascia partire, non tornerà mai più: voleva fondare la sede del Fascio repubblicano di Barge. Altri 2 episodi: un partigiano ubriaco litiga con un carabiniere e vien portato in carcere per qualche ora, poi rilasciato: un altro ingravida una ragazza: bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini. Bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo. In quasi tutte le mie azioni sento un elemento più o meno forte di interesse personale, egoismo, viltà, calcolo, ambizione, perché non dovrei cercarlo anche in quelle degli altri?
Così si combatteva, e si moriva, in quegli anni. Qualcuno in montagna, qualcuno in carcere, molti nei campi di concentramento. Eroi, proprio perché non erano eroi.