Ancora una riflessione del nostro amico Renato Scagliola. Che ha affrontato la canicola per salire alla conca del Prà, in alta Val Pellice, dove ha incontrato gli amici di sempre.
Il Flegetonte, nome greco della attuale canicola, era, nell’Ade dei greci, il fiume ardente, citato anche da Platone, in cui erano immersi matricidi e fratricidi. Oggi siamo invece puniti tutti, anche con peccati lievi, per via del progresso della giustizia.
Faticosa quindi salita alla mitica conca del Prà, alta val Pellice, non solo come solito affettuoso pellegrinaggio obbligato, decenni dopo decenni, ma immaginando aria fresca, Niente da fare. Il sentiero a lato della pista forestale, agevole ma più trafficata, è tutto ripulito dai volontari del Cai, ma resta un percorso erto di saliscendi, Il caldo ammazza. C’è sempre però, a circa un terzo della salita, una portentosa sorgente, che esce da sotto un masso ciclopico, abbondante, gelata, di buonissima acqua che ha fatto tanta strada sotterranea, filtrando adagio, gocciolando in un suo labirinto segreto e scuro, prima di sorprendere, gratis, il viandante. Più su, ancora tra i cumuli accatastati in disordine di roccioni grandi come un tram, le fessure tra i blocchi sfiatano correnti d’aria fredde, freddissime – almeno dieci, quindici gradi in meno rispetto alla temperatura percepita. E insieme a questi soffi di cantine millenarie, si alzano incongrue, leggere nebbioline di condensa. Quasi tutto il percorso è all’ombra di larici e poche latifoglie. Alcuni malezu sono enormi, monumentali, buona scusa per fermarsi, guardare il portento, e meravigliarsi delle radici che lottano e s’infilano in ogni fessura. A terra erbe fini fini, tenaci, che s’inchinano, macchie di rododendri, lamponaie ancora senza frutti, il profumo del timo serpillo fiorito.
Nella conca, se dio vuole, è tutto come prima, il rifugio Jervis, (ma quanti ricordano quel Willy, partigiano Gl, impiccato al Villar dai fascisti nel ’44?), la Ciabota, le modeste costruzioni anni ’50, prima casermette della Finanza, oggi abitazioni civili con stalle e un bel porcile recintato di pietre con tre giovani maiali che ingrassano in attesa delle salsicce di novembre. Sono nutriti anche, come tradizione, col siero avanzato dalla lavorazione del latte e fraternizzano con dei pollastrini che vanno a becchettare nel truogolo, incoscienti. La Ciabota, come sanno tutti i frequentatori del luogo, ha la data del 1830 incisa su una parete,ed è una “Locanda Restaurant”, come da insegna. Quindi non un b&b, ma proprio una modesta locanda alpestre, con le comodità di oggi, ma senza fronzoli 2.0. E questo la classifica come rarità da tutelare, da conservare così come si proteggerebbe una chiesa romanica. Anche perchè è un posto vivo dove si lavora e si produce, pur con le difficoltà immaginabili, soprattutto battagliando con i burocrati del piano.
Silvana Charbonnier e il marito Walter Cairus, con figli nuore e nipoti, lavorano dal mattino alle sei, fino a notte: allargare le vacche per il pascolo, mungere, fare burro e formaggi, accudire galline, api e maiali, tagliare la legna, scendere al Villar per le spese. Poi c’è il bucato, con panni sciorinati all’aria come nelle cartoline, la cucina, le mille cose di un piccolo mondo autosufficiente. E i fiori da bagnare, perchè Silvana ci tiene, e c’è anche l’orto con insalate, sedani e patate.
Ci sono i cani meticci che guardano il gregge insieme a due maremmani, e gatti sempre in giro. Nè gli uni, né gli altri hanno mai assaggiato una crocchetta, solo gli avanzi di cucina. Come sempre in campagna, una volta.
Al mattino lo spettacolo epico di Paolo Cairus che spinge le sue settecento pecore verso i pascoli alti, mentre alla sera ridiscende, e munge fino a che fa buio.
Questa la parte agricola che sollecita forti nostalgie.
Informazione tecnica: i cellulari al Prà non funzionano. Non c’è segnale. Anche se qualcuno si ostina a smanettare a vuoto cercando conforto. Gli psicologi hanno definito la patologia “demenza digitale”. Il telefoni fissi locali funzionano con un ponte radio.
Vicino il rifugio Jervis, gestito da vent’anni da Robi Boulard, guida alpina, e custode del microcosmo del pianoro, che comprende altri alpeggi e un agriturismo. Robi è un uomo di grandi energie, può accompagnare clienti ad arrampicare dappertutto, chiacchiera volentieri con tutti, mantiene legami con amici in mezza Europa, ma magari a mezzanotte salta in macchina e fila al fondo del pianoro a controllare la centralina idroelettrica che da anni fornisce elettricità tutti i residenti. Ma insieme è amante della musica e dei libri, fa scuola di arrampicata a gruppi di ragazzini e organizza concerti di jazz. Insomma un coordinatore dei tanti che lavorano con lui: il braccio destro, Matteo, Anna serafica tuttofare, il giovane chef Andrea Roncaglione e tanti altri ragazzi che trottano a far di tutto. Il telefono fisso del rifugio è beige col disco. I ragazzini fanno meraviglie. Mai visto.
Nel rifugio c’è un pianoforte, una chitarra e una batteria smontata che serve per i concerti.
Quindi due mondi diversi, ma che vanno d’amore e d’accordo, realizzano un unicum veramente insolito in montagna. Intendiamoci non è che si stia santificando il Prà, che anche Medijugorie è stata declassata a imbroglio mistico-bottegaio, ma il luogo è certamente speciale. Perché è una montagna di persone che nell’insieme generano serenità e piacere verso chi arriva anche solo per mezza giornata. In più siamo in terra valdese, colta e civile, già europea quattro secoli fa.
Si cammina, tanto o poco come si vuole, di sera si può guardare un vero buio, le stelle brillanti, e il lumino lontano del rifugio Granero.
Incontro con francese di Briançon, oriundo italiano, atletico, nero di sole, 45 anni circa, grande zaino, chiede informazioni per andare al Bucie, guardiamo la carta, beviamo una birra e prima di andare via ringraziando paga lui senza dire niente. Ma ho sentito e lo ringrazio. E’ uno tostissimo, dice che i quindici giorni di ferie parte a piedi da casa, e cammina su tutte le montagne che trova, monta la tenda, e cammina da solo come un dannato. Un pacifico guerriero d’altura.
Menù della Ciabota: affettati misti, cotechino nostrano, lingua in salsa verde, vitello tonnato, agnolotti al ragù, brasato al barolo, agnello alla cacciatora,polenta, pureè di patate, formaggi, dolci, caffè, bevande incluse 20 euro. Cartello su carta: vendita formaggi: toma mista, toma Monte Granero, ricotta fresca, saras del fen, tomette al pepe. Il menù del rifugio è altrettanto buono, magnifiche acciughe al verde, polenta di mais pignolet,carne e salsiccia, minestroni e paste asciutte, formaggi e dolce. 15 euro bevande escluse. Sono passati i tempi francescani di soli minestrone formaggio